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Le voci dello spirito

Regia di Aleksandr Sokurov vedi scheda film

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La recensione su Le voci dello spirito

di EightAndHalf
8 stelle

La realtà è quello che succede fra un sogno e un altro.

 

 

Ad Aleksandr Sokurov non interessa confondere le due dimensioni, sogno e realtà, se non a livello di estetica e di atmosfere. Per Sokurov invece sussiste forte e chiara ancora la netta distinzione fra le due parti, una delle quali concede spazio alla bellezza, l’altra invece no.  Un  binomio inestricabile che in Dukhovnye golosa viene affiancato all’ovvio conflitto tematico di guerra e pace (la pace del sonno di un soldato dormiente)  e anche al meno ovvio confronto fra Arte e Vita. D’altronde sono anche due le dimensioni in cui Sukorov inabissa questo suo immenso film: quella reale della quotidianità nera, sanguinolenta, tediosa, dei soldati, e quella sospesa, ondeggiante, della voce fuori campo, che spesso interviene a commentare cosa avviene, ma che all’inizio di tutto si diletta nel resoconto di frammenti biografici della vita di Wolfgang Amadeus Mozart. L’incontro misterioso di tutti questi estremi antipodici in Sokurov avviene nell’invisibile. E in Dukhovnye golosa l’invisibile non è il fuoricampo, ma è il silenzio, il vuoto, lo spazio fra le cose.

 

 

 

Diviso in cinque episodi, gemello di Povinnost (realizzato tre anni dopo questo, nel 1998), Spiritual Voices è uno scandaglio esistenziale che brilla di un chiarore autentico nella sconfinata filmografia del regista russo. Ideale incontro dei documentarismi di Wang Bing e di Werner Herzog, il film riesce ad estrarre dai momenti autenticamente e sconfortantemente reali della vita sempre uguale dei soldati al confine Afghanistan-Tagikistan quel pozzo di meraviglia che è l’astratto pensiero umano. Il film stesso, che ha una incredibile funzione terapeutica e purificatrice per lo sguardo dello spettatore, è un film astratto e impalpabile, quasi teorico eppure non distante dagli umori terreni. Perché tra un’azione e un’altra, come si è già detto, sussiste un vuoto riempito dai pensieri complessi dei protagonisti. Non è un caso che Sokurov si soffermi a lungo sui volti dei soldati, sia mentre dormono sia mentre si riposano un attimo dalle contingenze terrene. Con un pietismo mai forzato ma sempre calzante, e con movimenti di camera ficcanti ed efficaci, il regista russo trasforma ogni singolo soldato nell’angelo ferito di Hugo Simberg, un individuo dall’innocenza offuscata che si sforza di sognare ma è idealmente ferito nell’animo e soprattutto nello spirito.

 

(L'angelo ferito, Hugo Simberg, 1903)

(Una scena da Dukhovnye Golosa)

 

Sono proprio il silenzio, il paesaggio, il passare del tempo, le voci dello spirito. Esse si frantumano nella riflessione inafferrabile e nel sentimento. Basti guardare il primo episodio, uno degli eventi più profondi che possano muovere l’interiorità di uno spettatore, e forse uno dei lavori più incredibili di Sokurov: un paesaggio si trasforma lentamente davanti ai nostri occhi come se tutte le variazioni climatiche impressionistiche alla Monet si succedessero nella pellicola cinematografica, affidando alla semplice azione della natura e del punto di vista un retroscena commovente dal sapore tardo-romantico. Non è un mistero, per chi ha visto almeno un film del regista, che Sokurov non disdegna il confronto tra il Cinema e tutte le altre arti. E in questo film, così come in altri, egli tratta l’immagine filmata come un dipinto, in maniera delicata, ieratica, ottenuta scalpendo una dimensione estranea che è quella catartica sospensione del giudizio nel momento in cui ci si emoziona per un’opera d’arte. Rievocando la musica di Mozart e di Beethoven, ci si riesce ad immergere in un’altra dimensione, ci si libra e si vola.

 

 

Ma il film di Sokurov è pieno zeppo di altre sequenze miracolose. Tralasciando il frammento poi estratto dal film per creare il corto Soldier’s Dream (capolavoro), si guardi alla carrellata all’indietro dal soldato sdraiato sul monte, che richiama fortemente alla carrellata rivelatrice finale di Nostalghia di Tarkovskij, o anche al momento dei saluti di alcuni soldati che se ne vanno dal fronte per tornare a casa, un momento di riposo che verrà forse ripreso dall’impressionante momento di svago dei monaci certosini del groenighiano Die Grosse Stille. Tutto il film è una miniera preziosa di gemme incantevoli, come il primo piano del cane sotto il tavolo nell’ultimo episodio, o i semplici volti dei soldati che salgono sull’aereo per spostarsi in altra sede, sguardi fissi  e immobili, sconsolati, stroncati in ciò che alla mente umana riesce meglio, quello di creare la bellezza del creato.

 

 

 

 

Affidando il flusso cinematico ad annosi quesiti esistenziali sul finale (che rischiano appena il lezioso), Dukhovnye Golosa riesce alfine ad emozionare per come riesce a inserirsi in un luogo, offrendo ipoteticamente un protagonista ma non permettendo allo spettatore di associarlo a un volto in particolare. La voice over diventa la voce di tutti i soldati, la voce di un angelo ferito e trascinato da due bambini tristi come in un quadro finlandese. Richiede pazienza ma la ripaga: un film che fa stare bene.

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