Dopo La freccia azzurra D'Alò torna a raccontare il Natale, i sogni e gli incubi dell'infanzia con una sceneggiatura originale e un suggestivo doppio scenario
Nasce da una lezione di Lotte Reininger l'amore di Enzo D'alò per l'animazione.. Dalle silhouette della celebre protoanimatrice tedesca il musicista/regista trae spunto per costruire le sue animazioni, prima estremamente semplici e seriali, poi condensate in numerosi lungometraggi in cui lo stile registico e i disegni evocativi raccontano, il più delle volte, storie tratte dalla penna di celebri autori come Michael Ende, Gianni Rodari o Luis Sepulveda, come nel caso del celeberrimo La gabbianella e il gatto. Non è così in Opopomoz, primo film animato diretto da D'Alò con un soggetto originale. Le linee nette e la saturazione coloristica delineano un universo familiare, in cui si aggirano personaggi fortemente caratterizzati in cui i piccoli spettatori potranno riconoscersi o ai quali accostarsi come a degli amici, a dei vicini. Il protagonista è un bambino napoletano con grandi occhi luminosi e si aggira in un mondo dalle fattezze quotidiane, confortevoli, ancora una volta non declinate a mere esigenze naturalistiche o descrittive. I personaggi secondari, in particolare coloro che appartengono a quel mondo adulto dal quale il piccolo non si sente capito, sfiorano con leggerezza stereotipi regionali e lineamenti tipici ma si rivelano nella loro forza e unicità, nel loro essere così atipicamente normali. Interessante, in tal senso, è il lavoro sul sonoro e in particolare sul doppiaggio, con voci certamente riconoscibili dagli spettatori più maturi, con personaggi che si lasciano andare con naturalezza ad una cadenza dialettale che non stride con il contesto ma riesce anzi a raccontarlo con maggiore vividezza. Persino l'accento ingenuo e gustosamente ridicolo del personaggio doppiato da John Turturro, uno zio italoamericano in visita a Napoli, accarezza le sue grossolane fattezze con leggerezza e conferisce spessore a uno dei tanti particolari che non si arrendono a restare "sfondo".
Il piccolo Rocco, con l'aiuto di una dolce cuginetta, si inabissa nel luogo - non luogo per eccellenza per sfuggire alla percepita indifferenza dei suoi genitori, appena "investiti" dall'arrivo di un fratellino che sembra fagocitare le attenzioni di tutti, persino quelle dei lontani parenti. Il presepe, simbolo e fardello di una fede talvolta più mostrata che vissuta, ma anche oggetto d'arte minuziosa e ostinata come accade nelle vie centrali della vecchia Napoli, assume l'indicibile sembianza di mondo altro: è un nuovo luogo animato dalla magia, o forse persino dalla malìa blasfema di due diavoli cartooneschi e maligni che spingono il ragazzino ad invischiarsi in vicende più grandi di lui. Il presepe diventa, dunque, terreno di gioco in cui i personaggi, fino ad un momento prima ineluttabilmente immobili per volere dei grandi, prendono vita e raccontano le loro numerose ed interessanti storie. Il significato religioso, pur presente, appare dunque come un semplice spunto per narrare una vicenda umana ancora più vasta e insondabile come quella dell'amore-odio che lega bambini ad adulti, bambini a bambini. La mancata nascita di Gesù indica, forse troppo smaccatamente, la difettosa accettazione della nuova entrata in famiglia. L'arduo percorso di riconciliazione con i propri affetti e con parti nuove e più profonde di sé passa per incursioni metafisiche e simil-storiche attraverso varie tappe, scandite dal soul contaminato e sognante di Pino Daniele e dalle voci, non solo parlanti, di villain maestosi come Sua profondità /Peppe Barra.
Le pulsioni negative, ridicolizzate nella loro teatralità esplosiva e accostate al roboante mondo subterraneo, vengono così esorcizzate nel viaggio del giovane protagonista, sempre in ascolto del suo lato oscuro pur nell'andamento carezzevole del suo percorso.
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