Regia di Valerio Zurlini vedi scheda film
Chissà perché non se ne parla più, del cinema ‘dipinto’ di Zurlini. Forse il suo tocco lieve e poetico di ‘quadro animato-stacco-nuovo quadro animato’, la sua perenne ricerca di una composizione figurativa lancinante – pur nella relativa semplicità di fine e mezzi – metterebbero in difficoltà molta gente al giorno d’oggi; gente imparata ad infilare le mani della cromìa dentro alle viscere del corpo-immagine, a squartare la luce del giorno in impeccabili frammenti di ‘hd’, a ribaltare l’organizzazione spaziale centomila ed una volta ancora nell’attimo di un solo film. Ma io vorrei parlarne di Zurlini, e di questo suo primo capolavoro. Non lasciamoci ingannare dall’anno e dal bianco e nero di “Estate violenta”. La seconda fatica cinematografica del regista bolognese è sì datata 1959, ma è anche un’opera profondamente ‘moderna’. Lo era, senza alcun dubbio, quando uscì nelle sale italiane, in quei mesi in cui – sia in simbolo che in sostanza –, trionfavano a Venezia due autori cinquantenni come Rossellini e Monicelli, mentre in Francia la nouvelle vague parigina infiammava gli schermi, anticipando un incendio creativo che avrebbe presto investito tutta quanta l’Europa. Da un lato, dal nostro di lato, delle produzioni puramente ‘merceologiche’ ed identitarie quantunque illuminate dall’estro di due grandi direttori di regia (“Il generale della Rovere” con De Sica come mattatore, a chiudere anche idealmente un’epoca; “La grande guerra” con Sordi e Tognazzi); dall’altro lato, da quello degli odiati cugini d’oltralpe, un’esplosione estetica come poche, il cui riverbero era già giunto in terre lontane come il Giappone e la cui scia stravolgeva tutto quanto il modo di intendere e di fare cinema.
Il nostro quasi esordiente, in questo panorama così antitetico, portava coraggiosamente per la prima volta l’attenzione del pubblico sul convulso succedersi degli avvenimenti che avevano lacerato l’Italia nell’estate del 1943. Un argomento tabù in quegli anni di centrismo selvaggio, di rimozione forzata di storie di fascismo e di resistenza armata; anni in cui pure film storici degnissimi, avevano conosciuto l’onta della mano del censore (vi voglio qui ricordare, il “Senso” viscontiano e “La pattuglia sperduta” di Piero Nelli). L’idea di “Estate violenta” è un’idea di cinema povero, fieramente borghese e quasi ‘tolstoiano’ per la necessità di far diventare una storia privata, specchio e riflesso di un grande avvenimento pubblico. Zurlini concepisce questo film mentre lavora alla sceneggiatura di “La ragazza con la valigia” (che poi vedrà la luce l’anno seguente), e cerca di modellare i due personaggi principali (quelli di Jean-Louis Trintignant e di Eleonora Rossi Drago), ripescando aspetti e dinamiche psicologiche della sua esistenza. Nulla di autobiografico, ma come non riconoscere nel personaggio di Carlo parte delle vicissitudini del diciottenne Zurlini, costretto proprio in quel fatidico 1943 a scegliere la via partigiana, a sfidare la morte, a conoscere il rischio, a provare coraggio e paura? E come non intravedere, nelle pieghe ansiose e ribelli della vedova Roberta, il disagio dell’intera classe alto-borghese di quegli anni, classe sociale a cui Zurlini apparteneva di diritto?
Questo film prende tra le sue dita la filosofia del neorealismo, oramai morto e sepolto, facendo di virtù necessità (“L’abbiamo fatto con quattro soldi in condizioni di miseria estrema”, confiderà più tardi il regista), la risciacqua nella fonte del cinema di introspezione più fine ed estetizzante (l’innamoramento dei due protagonisti, nel famoso ballo notturno, è degno di figurare tra le più intense scene d’amore del cinema italiano mai girate), e ci riporta alla fine di un viaggio del cuore diventato calvario dei corpi. Detto che il tema – tanto caro a Zurlini –, del fallimento della fusione della coppia, del destino segnato per i sentimenti che soccombono al tempo e alle prove della vita, qui viene esaltato in una formula di tensione che sorprende e conquista lo spettatore, restano da annotare i due passaggi che, già essi da soli, rendono quest’opera ancora oggi un caposaldo di ‘modernità’.
Il primo è la scena iniziale del film; sul molo, non appena la barella col prigioniero ferito viene messa sull’autoambulanza, uno dei soccorritori, ferito ad una mano, riceve da una protagonista del racconto (‘bressonianamente’ vista di spalle) un fazzoletto per pulirsi. Lui accetta con sorpresa l’offerta, viene fatto indietreggiare ma poi torna spavaldamente sui suoi passi, ignora la ragazza e rivolto in primo piano alla macchina da presa, apre le dita in segno di vittoria. È una scena che spiazza, assolutamente incredibile e mai registrata fino ad allora in un prodotto cinematografico italiano di finzione. Scoria postuma, forse, dell’attività documentaristica di Zurlini (vedasi “Miniature” e “Pugilatori”, rispettivamente del ’51 e del ‘52), ma magari anche inconsapevole epifanìa – fatta con quarant’anni d’anticipo – di tutto quell’immaginario visivo che, oggi, ci fa soccombere sotto quintali di reality, di ‘tv in diretta’, di private web e di un rapporto oramai quasi pornografico con la comunicazione visiva. Il secondo, altro momento involontario di veggenza artistica, è invece la scena finale, quella del bombardamento della stazione di Bologna. Filmicamente parlando è il colpo di genio, voluto dal produttore Goffredo Lombardo, di gettare tutte quante le risorse in uno scenario degno di un kolossal americano, che capovolge il segno dell’intero racconto e che – probabilmente – è uno degli elementi che decretò il grande impatto (con relativo successo al botteghino) di “Estate violenta”. Col senno di poi, e con gli occhi sanguinanti della Storia, quei frame in cui la stazione è piena di lamiere accartocciate e fumanti ed è percorsa da figure umane sconvolte che incespicano su torsi umani e cadaveri di bambine, ci riporta altrove. In un futuro (per il film) che è un passato (per la nostra realtà) ancora non rimarginato, fatto di bombe in sala d’aspetto, di persone normali disciolte nello scoppio e in una giustizia umana che non arriverà mai più a regalarci un fazzoletto per le nostre ferite.
Ed allora, perché non si parla più di Valerio Zurlini?
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