Regia di Valerio Zurlini vedi scheda film
La storia è raccontata con una specie di pudore rappreso che è poi uno degli elementi di maggiore connotazione stilistica di un film che è anche un imprescindibile documento di costume di forte incisività (la descrizione di una gioventù dorata, lontana per privilegi di casta o di regime da qualsiasi pericolo, compreso quello del fronte di guerra).
“Scelsi il tema degli anni Quaranta perché era il tema della mia giovinezza. Il film però non è affatto autobiografico. Ogni tanto mi accusano di fare dell’autobiografia, ma io ritengo – come diceva Thomas Mann – che l’autobiografia sia la malattia infantile di uno scrittore, e tento di evitarla disperatamente. (…) Questo non toglie che l’autobiografismo, cacciato dalla porta, rientri dalla finestra, perché rientra nell’atmosfera, nel tempo che si descrive, nell’aria, in tante cose. Io mi ero sempre rammentato quell’ultima, incredibile, drammatica e strana vacanza che era stata l’estate del ’43, dopo la quale per me, per due anni, non ci furono più vacanze né estati perché andai in guerra.”
Così scriveva Valerio Zurlini a proposito del suo “Estate violenta” ne L’avventurosa storia del cinema italiano raccontata dai sui protagonisti 1960-1969 di Goffredo Fofi e Franca Faldini, e sono parole che è bene tener presenti nell’analisi strutturale del film.
Già, perché Zurlini, classe 1926, nel 1943 aveva 17 anni appena, qualcuno in meno di Carlo Caremoli (e del suo gruppo di amici), il protagonista di questa appassionata “storia d’amore e di guerra”. Certamente non è di se stesso che parla, ma dentro si avverte l’intensa presenza del ricordo di un’esperienza vissuta in prima persona, che non è “nostalgia”, ma “conoscenza diretta”, e la partecipazione emotiva agli avvenimenti anche storici (che sono tutt’altro che secondari rispetto al racconto, nonostante che in molti non abbaino voluto riconoscerlo al momento della sua uscita sugli schermi), è così “palpabilmente personale”, da far ritornare anche noi spettatori indietro nel tempo, come se vivessimo “in presa diretta” ciò che viene rappresentato sullo schermo.
Ho avuto l’occasione di rivedere il film qualche giorno fa, grazie all’uscita in edicola dello spartano Dvd finalmente disponibile anche in Italia (meglio che nulla marito vecchio, no? e allora visto che da noi c’è una colpevole dimenticanza “distrattiva” verso questo nostro straordinario e “sottovalutato” autore che meriterebbe una revisione anche critica ben più autorevolmente approfondita, ci si deve persino accontentare di quel poco che passa il convento - e fortunatamente sembra che il mosaico intorno al suo nome cominci lentamente, anche se faticosamente, a ricomporsi - perché in ogni caso viene a colmare una imperdonabile lacuna che gridava vendetta).
Mi ci sono avvicinato con una certa titubante preoccupazione, poiché erano moltissimi anni (credo una trentina, più o meno) che non avevo avuto più l’occasione di “revisionarlo”, e temevo che il tempo potesse giocarmi adesso qualche brutto tiro, rendendo meno pregnanti e più “smorzate” le emozioni che alla prima visione (ma anche in quelle successive) erano state profonde e avvolgenti. Ma fortunatamente non è stato così, e ho trovato praticamente intatta la magia “coinvolgente” del pathos, già subito durante lo scorrere dei titoli di testa, con quella scena “anticipatrice di un clima” che è perfettamente inserita nel percorso narrativo, anche se a prima vista può sembrare persino “aliena”. Insomma, nonostante gli anni, non l’ho scoperto minimamente invecchiato, anzi!!! e questa mi è sembrata la prima apprezzabile constatazione: come accade con il vino di qualità, l’ho trovato perfettamente conservato, migliorato direi, capace adesso di donarmi più corposi odori e sapori di quelli che aveva sprigionato una volta.
Ed ho davvero valutato come superflue e pretestuose (o meglio ingenerose) quelle “riserve” che accompagnarono la sua uscita in un’epoca fortemente ideologicizzata come poteva essere il 1959, quei “giudizi” trancianti, insomma, che non considerarono “positivamente” accettabile quel finale “sospeso”, per il solo fatto che non forniva certezze sul futuro “politico” dell’uomo, dopo il bombardamento al treno che questa volta lo vedeva coinvolto in prima persona, giudicando persino un tantino equivoca la sua decisione finale: “Questo massacro mi fa orrore” - diceva infatti alla donna con la quale aveva tentato di sfuggire al proprio destino -“ma io sono come tutti gli altri, non riuscirò mai a ribellarmi… vado dove va il branco, così mi sento meno solo”).
“Dove andrà Carlo Caremoli?” si interrogava allora Guido Aristarco nella sua critica al film pubblicata su Cinema Nuovo: “Con chi? Su questi interrogativi irrisolti si chiude il film. Forse è possibile ritrovare Carlo, ingannato tra gli ingannatori, nelle brigate nere, tra quei giovani che non si accorsero di quali crimini si rendessero complici, e ritennero anzi di ‘difendere così l’onore della Patria tradita’, lo intravederemo persino tra i componenti stessi della banda che compirà, di lì a poco, l’eccidio di Corso Roma, a Ferrara, descritto ne La lunga notte del ’43 da Florestano Vancini” (il riferimento è “lecito” ed appropriato, non solo per la quasi contemporaneità delle due opere che uscirono a distanza ravvicinata, o perché praticamente il secondo prende le mosse proprio da dove finisce il primo, ma soprattutto - e principalmente - per il fatto che qui Florestano Vancini , insieme a Giorgio Prosperi, era aiutoregista, e quindi in qualche modo, “compartecipe e sodale”).
La domanda infatti, tutt’altro che retorica, stava ad indicare un inequivocabile posizionamento mentale che “pretendeva” come risposta una “sicura” dichiarazione di appartenenza dottrinale, in mancanza della quale “non si poteva che andare cauti” nel giudizio, come infatti avvenne, per lo meno da parte di coloro che si riconoscevano in una corrente che potremmo definire di derivazione “gramsciano/marxista”.
Non è puramente accademico né fine a se stesso nemmeno il riportare questa citazione nel contesto attuale, poiché a me sembra fondamentale farlo per poter stigmatizzare un fatto di primaria importanza: Zurlini può dire ciò che crede (o vuole), alimentando con le sue parole le riserve del critico, ma nei fatti concreti, per lo meno il “personaggio” Caremoli, al di là di quelli che sono i rapporti conflittuali con la famiglia (la laida presenza oppressiva del padre, gerarca fascista già della prima ora, dal quale sembra voler prendere le distanze ma senza opporsi; la “chiacchierata” madre che lo ha abbandonato a 4 anni e se la sta spassando con l’amante di turno in qualche remoto paese dell’America Latina) ha tracce profonde di aderenza autobiografica (parziale quanto si vuole, ma autentica) e non solo perché - come già detto - anche Zurlini era in vacanza a Riccione quel fatidico luglio, e anche lui stava “in quella situazione dorata che è tipica dei privilegiati, riservata a un certo numero di famiglie dell’alta borghesia e dell’aristocrazia italiane” ma anche e principalmente perché poco dopo si sarebbe arruolato nel Corpo di liberazione, facendo ben due anni di guerra contro i tedeschi. In qualche modo allora mi sembra che possa essere proprio questa la sua personale “risposta” comportamentale da fornire a Aristarco, indipendentemente da cosa farà davvero Carlo, che è poi ininfluente nell’economia del racconto per come è stato condotto e concluso, visto anche che il suo atteggiamento è perfettamente in linea con il personaggio, comunque sempre incerto e titubante persino con la (ex?) fidanzata, uno che insomma non ha mai preso una posizione certa, e che qui dunque non fa altro che esprime un analogo pensiero, ma con una maggiore, amara consapevolezza dei propri limiti, il che rappresenterebbe in ogni caso una conquista non indifferente che denota “maturazione” critica.
Ad ogni modo, e a prescindere da questa considerazione prettamente personale, io credo poi che adesso può davvero risultare del tutto ininfluente una risposta adeguata e certa a quella domanda, poiché sappiamo che in ogni caso, le scelte individuali di una persona non avrebbero minimamente influito su ciò che sarebbe accaduto, non subito, ma alla distanza, negli anni della contemporaneità, che ci vedono purtroppo protagonisti diretti e nostro malgrado, di una indecente restaurazione “negazionista” persino dei valori della Resistenza e di una “rivalutazione” quasi eroicizzata delle bieche figure che scelsero Salò. E se c’era una cosa che voleva evitare Zurlini (le intenzioni dell’autore dovrebbero sempre essere tenute in evidenza da chi giudica) era proprio il tono predicatorio: il suo film non intendeva essere in alcun modo un lavoro a tesi, non un’opera portatrice di un messaggio, ma bensì la “testimonianza diretta di una incertezza”, rappresentata attraverso un amore impossibile che “deve” comunque fare i conti con la guerra e soprattutto con i tragici avvenimenti di “quell’estate violenta”, anche se “pretenderebbe” di restarne fuori, di ignorare la realtà, quanto meno rimanendone ai margini. Perché la guerra è presente, non è vero che non la si avverte quanto sarebbe necessario, prima di quel finale altamente drammatico, poiché attraversa invece, fortemente connotata, tutto il percorso con le sue inquietudini e le sue paure, anche se qui si parla di una classe che più di altre ha la possibilità, per casta o connivenze, di restare lontana dai suoi orrori. E le immagini dei titoli di testa, il volo radente sulla spiaggia dell’aereo militare che sarà l’occasione di “un incontro” in qualche modo fatale, i bengala che illuminano la notte dei bombardamenti, vissuti durante la festa quasi come uno spettacolo fantasmagorico molto vicino a quello dei fuochi d’artificio nell’incoscienza irrazionale di un’età e di una condizione… l’irrompere improvviso della radio che comunica la “caduta di Mussolini” il 25 luglio… il cambiamento di rotta delle coscienze, fino al terribile bombardamento finale che darà una svolta di “tragica realtà” dalla quale non sarà più possibile prescindere o fuggire, sono tutte tracce non casuali abilmente disseminate capaci di dare una differente dimensione a tutto ciò che stiamo osservando, che ci permette di inquadrare definitivamente le cose nella giusta luce, di guardarle e giudicarle nell’esatta prospettiva anche “storicizzata”.
Ma andiamo per gradi, dunque (o per priorità, come sarebbe più esatto dire), sottolineando che tutto questo c’è, ma che in primo luogo, Estate violenta e Zurlini vogliono comunque raccontarci una storia d’amore, ed è ciò che fanno con straordinaria capacità empatica. “Non ho fatto alcun film storico” chiosava ancora a caldo il regista “la spiegazione reale dell’accadere non mi interessa, i fatti sono sempre interscambiabili. Ho raccontato una storia d’amore nella quale il pubblico dovrebbe trovare una vicenda assai lontana, che nella propria memoria romantica – pur nella sua drammaticità – ha il valore che hanno tutti i ricordi. La generazione, almeno quella di mezzo – che va dai 30 ai 50 anni – dovrebbe ritrovarvisi”.
D’accordo.. magari è proprio e “soltanto” così… ma volente o nolente, anche se viene privilegiata la descrizione psicologica del “privato”, il clima di un’epoca infame, si avverte, risulta tangibile, la storia fa ugualmente capolino, poiché è oggettivamente impossibile ricostruire eventi o destini che siano puramente individuali, che si collochino cioè fuori dal tempo storico di riferimento, e qui la fusione avviene ed è persino inevitabile e “travolgente”, ogni volta che in qualche modo il film rappresenta e si collega a fenomeni legati a un particolare e determinato momento della nostra vita nazionale, che sono poi le pagine più belle e appassionate di tutta l’opera: stupendamente girate, esse offrono un documento di costume di forte incisività, la descrizione di quella gioventù “agiata”, lontana per privilegi di casta o di regime (come ho già detto) da qualsiasi pericolo, compreso quello del “fronte di guerra”, beatamente adagiata a godersi il sole e la vita nelle spiagge di Riccione o nelle ville di Rimini, tra un bagno e un flirt, una cena e un ballo al ritmo di Temptation suonato da un disco tempestivamente arrivato dalla Svizzera (la voce, in simil Frank Sinatra, è quella “autarchica” di Teddy Reno, tanto per essere “coerenti” fino in fondo) quando appunto (e mi ripeto) questi “delfini indifferenti” posso “persino” esaudire il desiderio di vedere, stando al sicuro, un bombardamento aereo, come se fosse uno spettacolo, un “interessante” diversivo alle proprie oziose giornate fra spiaggia e tennis, fornito da quelle luci notturne “sparate” nel cielo dai ricognitori per individuare i loro obiettivi da colpire, ma che in loro suscita semplice stupore di meraviglia.
Il regista indica proprio – e non “casualmente - fra luglio e l’8 settembre, con lo spartiacque centrale del 25 luglio - una data che inevitabilmente “cambierà le cose per tutti” - il percorso del suo racconto. Lo conclude praticamente in poco meno di due mesi , ma di quelli “capaci di sconvolgere il mondo”. E se Zurlini si rappresenta come “neutrale” osservatore dei fatti, poiché sembra non voler parteggiare per nessuno, né per gli antifascisti, né per i fascisti, sotto l’apparenza traccia invece “annotazioni” precise, costruisce dei personaggi, definisce persino dei dialoghi che se analizzati con la lente d’ingrandimento, dicono molte più cose di quante si vorrebbe immaginare riduttivamente di voler comprendere per il semplice fatto che niente è urlato o esasperato, ma solo “delicatamente” declinato con una specie di pudore rappreso che è poi uno degli elementi di maggiore connotazione stilistica di tutto il film.
La maestria con la quale il regista conduce l’operazione, è straordinaria: i ritmi lenti delle occhiate che si incrociano furtive; i dialoghi, appunto (privi di enfasi e mai “pomposi” o sopra le righe, frutto di una calibrata sceneggiatura dello stresso regista, ma messa a punto con il supporto tecnicamente ineccepibile e “necessario” di Suso Cecchi D’Amico e Giorgio Prosperi); la musica avvolgente di Mario Nascimbene; la fotografia fortemente chiaroscurata nelle mille sfumatura dei grigi di Tino Santoni, spesso giocata sugli sguardi o su intensi primi piani dei volti che fanno trasparire anima e sentimento; la prova maiuscola di tutti gli interpreti, a partire da una stupenda Eleonora Rossi Drago, qui alla prova migliore e più matura di tutta la sua carriera, per non parlare delle deboli introversioni di un efficace Trintignant quasi agli esordi, o del cameo strepitoso di Enrico Maria Salerno – il protervo, opportunista padre gerarca (la conferma che non ci sono piccole o grandi parti ma solo piccoli e grandi attori)… e poi il freddo moralismo borghese di una eccellente Lilla Brignone, e la solare presenza di una Jaqueline Sassard alle prese con la definizione di un personaggio tutt’altro che secondario; e ancora Raf Mattioli (prematuramente scomparso soltanto pochi anni dopo), Federica Ranchi, Cathia Caro e tutti gli altri… un cast insomma composito e affiatato che “respira” in perfetta sintonia con le immagini e con le cadenze sinuosamente rallentate “scelte” con raffinata intuizione.
Ma tornando al film, che è poi la cronaca di un amore evocata con inusitata e malinconica dosatura di toni e di linguaggio, pur non disdegnando però l’efficacia quasi documentarista che prende il necessario corpo in alcune parti, quando può persino sembrare che l’influenza neorealista riemerga un poco di soppiatto ma perfettamente bilanciata con il resto però (il particolareggiato “racconto” della notte del 25 luglio, l’arrivo degli sfollati nella villa requisita, la potenza drammatica del bombardamento finale della ferrovia)… si può ben dire che è proprio l’impossibilità di sfuggire alla Storia (quella con la S maiuscola), la necessità inevitabile di doversi confrontare (prima o poi) con ciò che si vorrebbe occultare o dimenticare, l’altro tema prioritario che emerge prepotente (che ci porta ad affermare che è proprio questa la lezione che fornisce, “l’involontario” messaggio che ci veicola).
E i giovani protagonisti di Estate violenta fanno davvero di tutto per sfuggire alle loro responsabilità, a un dovere “morale” che non hanno mai avvertito: escono in barca fregandosene dei divieti, non rispettano l’oscuramento imposto, sono quasi indifferenti ai “cambiamenti epocali” del 25 luglio… restano “sempre fuori e lontani dai fatti e dalla storia” per quanto è loro possibile, fino a quando non si mette in mezzo l’amore e la passione, però. Solo allora si percepisce (forse) qualcosa di diverso (almeno per Carlo è così), si diventa meno guardinghi e più “temerari” e si può per questo incorrere nei controlli di una pattuglia per essersi attardati sulla spiaggia in un amplesso, pur sapendo che il proprio permesso per ritardare il servizio di leva è già scaduto (il primo vero “brusco” contatto con la realtà)… e che questa volta non ci saranno Santi in Paradiso, capaci di perorare ancora quella causa impossibile di “renitenza” comprata… Perché non si può sfuggire per sempre alla Storia e – soprattutto - al proprio destino.
Non tutto è ovviamente “perfetto”, ma i piccoli “sfaldamenti” che a volte si avvertono, sono largamente compensati da un “tono” speciale fra l’elegiaco e il drammatico, da una delicatezza di tocco e una sensibilità inusuale, nel narrare la nascita e l’esplosione di un amore non meno “violento” e irrefrenabile, nel mettere in evidenza le indecisioni, i rimorsi, persino le paure di una giovane vedova a sua vola divisa fra l’essere donna e madre, e di un altrettanto titubante e insicuro ragazzo colto nel salto della maturazione, che poi è il fatidico passaggio dall’adolescenza inquieta e un po’ irresponsabile alla consapevolezza dell’età adulta.
La sintesi finale? E’ perfetta quella che Paolo Mereghetti fa sul piccolo libretto (unica concessione extra) che accompagna il dvd a cui accennavo sopra: “Un film che affronta il periodo più ambiguo e meno raccontato della nostra Seconda guerra mondiale, e lo fa con una forza di immagini e una carica emotiva che stupirono (e sconcertarono) molti spettatori” e che - ma questo lo aggiungo io – non ha perso niente di quella carica coinvolgente che lo rese (e lo fa essere ancora) davvero unico e indimenticabile.
Nel film si racconta un’estate di vacanze a Riccione, nel 1943: quella di un gruppo di giovani della ricca borghesia italiana, “più o meno” studenti universitari, “più o meno” agiati, “più o meno” lontani dai problemi reali del paese (e dalle preoccupazioni del servizio militare). E più o meno qualunquisti, potremmo affermare adesso.
Fra loro, si distingue Carlo Caremoli (un più che convincente Jen-Louis Trintignant) che è figlio di un esagitato gerarca della prima ora (un veemente Enrico Maria Salerno con la testa rasata e lo sguardo tremebondo), che cerca di esorcizzare le idee e le azioni del padre, dietro una cortina di superficialità e di disilluso menefreghismo. Lo si capisce benissimo nel rapporto con quella che dovrebbe essere (o potrebbe essere stata) la sua fidanzata, Rossana (la dolce e inquieta Jaqueline Sassard) alle cui dimostrazioni d’affetto, risponde tutt’al più con una distratta rassegnazione passiva.
Un’estate al mare come tante, dunque, tra amici chiassosi e rituali scontati, se non fosse per l’incontro casuale con la più matura Roberta (Eleonora Rossi Drago praticamente perfetta), vedova ancora piacente di un ufficiale di marina, madre di una bambina che è poi la causa il pretesto che favorisce il loro “incontro” grazie al terzo “incomodo” del film: il passaggio a bassissima quota di un aereo militare sulla spiaggia di Riccione.
Fra i due, nasce improvvisa una forte corrente di simpatia che presto si trasformerà in attrazione amorosa. Per un poco la donna resiste, poi si abbandona all’amore, appassionatamente, sfidando la muta riprovazione dell’ambiente (soprattutto della madre e della cognata).
Dopo le dimissioni di Mussolini del 25 luglio e il caos che ne consegue, con il gerarca che opportunamente si eclissa, i beni e la villa requisita, Carlo che sì è attardato sulla spiaggia con Roberta per un ennesimo incontro d’amore, viene fermato da una pattuglia in ricognizione che lo invita a presentarsi al comando per non essere considerato un disertore, perchè la guerra continua e i suoi documenti di esenzione sono ormai scaduti. Roberta, angosciata, decide di scappare con lui e di nasconderlo in una sua villa a Rovigo. Ma durante il tragitto, il treno sul quale viaggiano viene bombardato e allora……
Nonostante sia solo la sua seconda prova nel lungometraggio, che viene per altro, dopo una consistente carriera di documentarista, a ben 5 anni di distanza dal suo esordio effettivo con Le ragazze di San Frediano (interessante e un pò “acerbo” adattamento in immagini del romanzo di Vasco Pratolini), la sapiente maestria con cui Zurlini impagina e realizza Estate violenta sorprese positivamente, pur con qualche riserva, quasi tutto il panorama critico italiano (e anche il pubblico rispose positivamente).
In effetti il risultato è maiuscolo (per alcuni questo è considerato il “vero” primo film tutto suo come in effetti è, poiché di Zurlini è anche il soggetto e la sceneggiatura, rivista poi con la consulenza di Suso Cecchi D’Amico e Giorgio Prosperi). Uno straordinario “esordio” insomma (se così vogliamo davvero definirlo) che Guido Aristarco paragonerà a quello altrettanto significativo di Francesco Maselli con Gli sbandati.
Per il Morandini, poi in questo film il regista riesce a coniugare le lezioni di Rossellini, Antonioni e Visconti con una partecipazione sentimentale giocata sul pedale della malinconia e una morbidezza di linguaggio senza compiacimenti estetizzanti che restituiscono l’aria del tempo, facendone per questo, uno dei rari e più trascinanti film d’amore nella storia del cinema italiano. (e scusate se è poco).
Che il film comunque sia decisivo per il suo autore, lo si evince da queste parole che fanno immaginare come l’impegno – e il risultato – non potevano che essere superlativi: “Volevo un film situato in quell’anno perché per me il 1943 è stato molto importante, è stato un anno in cui sono maturate in me grandi decisioni. Ho intuito che la caduta di Mussolini il 25 luglio sarebbe stata seguita dall’armistizio dell’8 settembre e che questo avrebbe portato all’occupazione dell’Italia da parte dei tedeschi.
Chi in quel periodo si trovava ad avere 17 o 18 anni, doveva reagire. E io ho deciso di oppormi ai tedeschi ancor prima che occupassero il Paese. Ho mantenuto la decisione in modo coerente, facendo due anni di guerra contro i tedeschi.
Dunque, mi sono rivolto al 1943 perché quell’anno segna per me l’inizio di una stagione straordinaria.
Dal 1943 al 1945 nella mia vita è successo tutto quanto: la conoscenza della morte, la conoscenza del rischio, la conoscenza della capacità di prendere decisioni, il fatto di mettere alla prova il proprio coraggio, di sentire la propria paura, di conoscere il proprio Paese – e io l’ho percorso a piedi da Cassino fino alla frontiera svizzera – di conoscere i soldati, di conoscere il proprio popolo”.
Anche Trintignat è insostituibile: con la sua introversione “trattenuta” disegna un perfetto Carlo Caremoli, come meglio non si potrebbe desiderare. Di lui Zurlini scrive: “Jean-Louis Trintignant lo incontrai nella sede di un’agenzia, a Parigi, avvolto in un giubbone da pilota americano. Era appena tornato dal servizio militare prestato in Germania, durante il quale aveva passato l’anima dei guai perché aveva un rapporto con la Bardot e nelle camerate era stato addirittura torturato dalla morbosa curiosità e dai lazzi dei commilitoni. Al ritorno dal servizio militare, si era trovato disoccupato, nessuno si ricordava più di lui. (…) Lo ricordo così, molto smarrito, un ragazzo con due occhi straordinariamente intensi con cui facemmo amicizia in un istante. Lì per lì fu difficile imporlo a Lombardo, poi invece capì il mio ragionamento e mi diede via libera per prenderlo”.
Ineccepibile sotto ogni punto di vista. Una Eleonora Rossi Drago mai così perfettamente in “palla” come in questo caso. Roberta è lei, ne rende alla perfezione anima e corpo (e la sua fatica fu giustamente premiata con un meritatissimo Nastro d’argento che coronava una carriera di tutto rispetto, ma che non la aveva però mai portata prima di allora, ai “vertici assoluti”, spesso considerata dalla critica “fredda ed elegante” (anche nelle sue interpretazioni teatrali con Visconti quando i recensori, soprattutto per chi venivano dal cinema, erano impietosamente esigenti molto di più di quanto sarebbe stato necessario). Forse più “conosciuta” allora (per il grosso pubblico, nonostante una notorietà cinematografica non di secondo piano) per aver partecipato al concorso di Miss Italia nell’anno che avrebbe visto vittoriosa Lucia Bosè, ma molte future dive sfilare al suo fianco, e per essere stata fra le prime a “farsi rifare il naso”, qui è davvero ineguagliabile… eppure fu (come spesso accade per le interpretazioni memorabili) una “seconda scelta” la sua. Così Zurlini racconta infatti come andarono le cose: “La Rossi Drago ebbe il ruolo un po’ per caso, perché io francamente volevo Anouk Aimée. Il film partì come una coproduzione, e quando feci il nome della Aimée ai francesi, mi risposero che non me l’avrebbero mai data perché portava sfortuna! Questa fu la frase esatta detta da due manager della Gaumont di allora. Lombardo ed io, che eravamo d’accordissimo sulla scelta, rimanemmo sbalorditi ma, poiché i francesi erano decisi a intervenire fortemente nella produzione, furono proprio loro a dirci: ‘Ma perché cercate un a francese e non prendete una del vostro paese?’. Tornando in Italia, l’unica attrice del nostro cinema che avesse quella determinata fisionomia, quel determinato peso, era la Rossi Drago (…) Perfetta per il ruolo per molti versi, era bravissima, buona, spaventata, non sempre pronta con la memoria, ma non importa. (…) Forse aveva qualche fisima sul trucco, la bellezza, però vorrei sapere quale attrice non le ha (…) E poi Eleonora all’epoca aveva trentasei anni, quindi era in un’età, se vogliamo, appena appena di passaggio. E’ chiaro che ambiva a dimostrarne vent’otto invece che quaranta, sono debolezze che soprattutto alle donne di quella generazione si possono tranquillamente perdonare.”
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