Regia di Michael Haneke vedi scheda film
Benny (Arno Frish) è un ragazzo che frequenta ancora le scuole superiori ed è il tipico figlio della dell’alta borghesia cittadina, viziato ed annoiato. È soprattutto un appassionato di video amatoriali. Nella sua camera ci sono centinaia di videocassette e diversi televisori che trasmettono contemporaneamente filmati di diversa natura, compresi quelli girati da lui stesso. Un giorno invita un’amica (Ingrid Stassner) per fargliene vedere qualcuno. Decide per quello in cui viene ucciso un maiale con una pistola di aria compressa. I due ragazzi si mettono poi a giocare con quell’arnese, e succede che la ragazza perde la vita. I genitori del ragazzo (Angela Winkler e Ulrich Muhe) vengono a sapere della cosa da un video girato da Benny che riprende tutta la scena dell’incidente. Moglie e marito decidono di coprire il figlio : si sbarazzano del corpo della ragazza e fanno sparire i video che la riprendono in compagnia del figlio. Tutto sembra andare per il meglio. Ma la macchina da presa di Benny è sempre accesa ed è sempre vigile sul mondo circostante.
Uno degli aspetti che contribuisce a generare la meraviglia del Cinema è il fatto che quest’arte si esprime attraverso dei trucchi esibiti e che questi servono allo scopo di farci riflettere intorno alla sfuggente complessità del vero senza pretendere di catturare nell’inquadratura la faccia nitida della verità. In questo quadro concettuale, Michael Haneke è emerso come una delle punte di diamante più importanti di un cinema sorto in concomitanza con l’evolversi di un tipo di società risucchiata suo malgrado (?) nel vortice suadente dei prodotti audiovisivi, sottoposta al controllo sempre più invasivo delle immagini teletrasmesse. Un cinema che ha posto l’attenzione sul corto circuito venutosi a generare tra il chi produce le immagini e il cosa riproducono le immagini, tra la responsabilità soggettiva di assumere delle scelte creative e la pretesa oggettività del prodotto creato. Haneke si è fatto trovare in mezzo a questo corto circuito che ha erto a totem del post moderno l’irrefrenabile culto per le immagini, col suo cinema (spesso) disturbato e disturbante, sempre attento a connettersi con le mutevoli trasformazioni dell’immaginario e a misurare il grado di alienazione che si producono. In quest’ottica, “Benny’s Video” rappresenta la sua opera più pertinente, e non solo per come inquadra il rapporto totalizzante che il suo protagonista instaura con la materia audiovisiva, ma anche perché mostra come la morale borghese viene corrotta dalle fondamenta dalla semplice vicinanza con qualcosa che non conosce (ho sempre pensato ad Haneke come ad un consapevole estimatore della poetica di Pasolini). Mi preme subito sottolineare almeno l’assonanza speculativa con quel grande film che è “Videodrome” di David Cronenberg. Ma mentre il cineasta canadese accentua soprattutto la componente “horrorifica” associabile al culto delle immagini teletrasmesse per riflettere sull’emersione in superficie dei nostri demoni interiori, Haneke articola maggiormente il ragionamento sulla natura alienante che potenzialmente possono avere le immagini. Sia quelle cosiddette amatoriali, che nascono con l’ingenua pretesa di carpire la vita per quella che è, con una loro estetica riproducibile in serie attraverso i canali messi a disposizione dalla rete globale (colgo l'occasione per ricordare un buon film che riflette su questi temi, "Afterschool", di Antonio Campos). Sia quelle “professionali”, indirizzate dal rispetto imprescindibile di determinati canoni formali e quindi artificiose per loro intima natura. Una dualità speculare che Haneke mette in circolo proprio attraverso questo film, che vive di immagini che creano altre immagini, di contenuti video divorati da altri contenuti video, della realtà vissuta che si autoalimenta nell’idea della sua eterna riproducibilità. La forma cinema elaborata da Haneke per questo film (una sorta di matrioska mi verrebbe da dire), rappresenta ciò che precisa i contorni della falsificazione cinematografica, un contenitore al cui interno si dà dimostrazione di come gli agenti attivi della produzione audiovisiva possono alienarsi dalla realtà nel momento stesso in cui fortificano la convinzione che gli è sufficiente per esistere quella che hanno catturato attraverso il loro lavoro. Michael Haneke sembra giocarci con questo limite malleabile architettando una messinscena dove si alternano, senza soluzione di continuità, le immagini trasmesse dai diversi supporti video (televisione, videoclip, pubblicità, notiziari, video amatoriali, telecamere di sorveglianza) e quelle che le comprendono tutte nella narrazione cinematografica. È come se volesse generare la (falsa) sensazione di una soggettiva ininterrotta e chiedere al pubblico una partecipazione che sia più cerebrale che emotiva. A dimostrarlo ci sarebbe tutta la sequenza iniziale, centrale direi per tutta l’economia del film, che ritrae dei contadini uccidere un maiale con una pistola ad area compressa. Un’immagine forte, cruda, di una violenza gratuita per lo sguardo, che Benny cerca di accentuare agendo con il rallenty e gli effetti sonori. Ma sono immagini “vere” in quanto contenuto del filmino amatoriale del ragazzo o sono partecipi della più generale finzione cinematografica (il contenitore) ? Haneke sembra divertirsi a mischiare le carte (lo farà ancora di più in “Funny Game”, un gioiello di sadica furbizia, come anche in "Niente da nascondere"), a voler riprodurre anche nello spettatore che guarda la stessa distanza emotiva dell’attore che è guardato rispetto all’evento “disturbante” rappresentato nel film. A questo punto verrebbe a supporto l’altra sequenza chiave del film, quella della morte nata per gioco della povera ragazza, da cui si possono ricavare due riflessioni interessanti. La prima, relativa al fatto che, nonostante la morte rimanga debitamente fuori campo (come un importante dialogo dei genitori nel finale del film), ricavata dalle urla strazianti della ragazza e dai colpi sordi della pistola ad aria, riesce comunque a trasmettere un senso di angoscia palpabile, a dimostrazione che, al cinema, non è necessario il visibile per produrre significati sul senso delle cose. La seconda, si riferisce al comportamento dei genitori e tende a mettere in connessione il ruolo che le immagini possono avere sullo sviluppo psicologico di qualsiasi vita e i comportamenti che si possono assumere al cospetto del verificarsi di un determinato evento. I genitori di Benny, come qualsiasi telespettatore posto davanti alla visione di immagini video disturbanti, scelgono di attribuirgli un proprio codice interpretativo. Per salvaguardare la loro quiete familiare e la loro stabilità borghese, preferiscono credere alle falsificazioni prodotte dagli artifici audiovisivi piuttosto che confrontarsi con congruente senso di responsabilità con la quota di verità testimoniata dal loro contenuto. Finiscono per banalizzare la morte in quanto circoscritta nei limiti fallaci di un’inquadratura. Gli tolgono il crisma dell’autenticità votandosi al culto della sua alienante riproducibilità. Finiscono per somigliare al figlio, che ha prosciugato la sua esistenza nell’anestetizzazione dei sentimenti perché si è reso incapace di riconoscere il limite tra la realtà fattuale e la sua mera rappresentazione.
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