Regia di Luciano Odorisio vedi scheda film
Quanto prometteva bene Luciano Odorisio, dio solo sa. Ma, come tanti altri della sua generazione, si è ritrovato nel mezzo di uno dei periodi più ingrati del cinema italiano, e allora s’è perso per strada. Peccato. Il suo esordio resta l’opus migliore della sua carriera, e il motivo è presto detto. Con proprietà di linguaggio, cognizione di causa, piglio sicuro e passione sincera, Odorisio parla di qualcosa che conosce bene, nella fattispecie la provincia dell’Italia Centrale e nel particolare la città di Chieti, probabilmente poco conosciuta a livello nazionale ma, se ci si pensa bene, archetipo della cittadina del centro Italia: orgogliosa di essere provinciale perché svogliata nel coltivare ambizioni megalomani, chiusa in un’architettura antica ed austera ma collegata con la costa e con la montagna, dominata da una borghesia altolocata e talora feudale molto incline a coltivare vizi privati e pubbliche virtù.
Evitando accuratamente il bozzettismo, Odorisio restituisce l’essenza di Chieti rendendola qualche cosa di universale, e non solo fotografando luoghi (il bar in cui avviene praticamente tutta la vita cittadina, qualche piazzetta, la piccola stazione) e mettendo in scena tradizioni e riti (il Venerdì Santo, la rifondazione del complesso bandistico formato da centoventi elementi, la politica che invade ogni cosa), ma soprattutto rappresentando personaggi che rifuggono l’idea dello stereotipo preferendo un’immagine allegorica e semplice al contempo.
È il caso di Sciopèn, personaggio in gioventù vagamente tonto e mediocre che aveva spacciato un Notturno di Chopin per farina del proprio sacco, divenuto politico che fa il bello e il cattivo tempo in città. O Marta (Giuliana De Sio), povera immigrata napoletana (“ce lu sem scurdat che è la figlia dellu scarpar?”), sposatasi con il maestro di musica Francesco ed amante di un facoltoso avvocato. O lo zio Cesarin (il monumento Guido Celano), vecchio insofferente e bonaccione che ne ha viste tante. Ma soprattutto è il caso di Nicolino, infermiere cinquantenne senza famiglia, vipera ipocrita e meschina che mette in giro la malalingua che genera la rottura dell’equilibrio del film: un ruolo che Tino Schirinzi disegna in modo superlativo.
Alternando canzoni pop (Messico e nuvole, ad esempio) al Miserere, con leggerezza e schiettezza, Odorisio, pur con qualche problema nel calibrare i due filoni, racconta la storia di un’amicizia maschia in pericolo, ben ritratta dall’irrequieto Michele Placido e dal disilluso Adalberto Maria Merli, (in)consapevolmente entrambi appartenenti alla patria degli sconfitti.
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