Regia di Takashi Koizumi vedi scheda film
In memory of Kurosawa Akira
Scorrono in apertura immagini in bianco e nero dell’ “uomo con la macchina da presa”, un omaggio visivo e un commiato sommesso ad un caro maestro perduto, poi Takashi Koizumi mette in scena la pioggia, uno dei topoi di Kurosawa, sempre opulenta, fragorosa, diluviante.
Ingrossa il fiume da giorni, blocca in una povera locanda un gruppo di varia umanità, ma sostanzialmente poveracci, costretti a star fermi lì senza quel misero lavoro che viene dal fiume, ora gonfio e minaccioso, e ad accapigliarsi per niente, anche una ciotola di riso è un buon pretesto.
Spicca fra tutti Misawa Ihei (Akira Terao), un ronin[1] che, assieme alla moglie Tayo (Yoshiko Miyazaki), è lì in attesa di poter attraversare il fiume.
Misawa è quel che si potrebbe definire la summa dell’eroe kurosawiano: abilissimo spadaccino, invincibile e quasi ascetico depositario di quell’arte, ci ricorda Kyuzo, l’asceta della spada dei Sette Samurai nei momenti in cui, da solo, disegna nell’aria fendenti con la katana, che poi ripone religiosamente nel fodero con gestualità di millimetrica precisione ed eleganza.
A differenza di Kyuzo, però, Misawa è un eroe molto umano, e in questo la vicinanza è più forte a Kambei, il samurai dal volto umano che dice: “Ho perso tutte le battaglie in cui mi sono trovato. Ci hanno sempre ripetuto “allenatevi, distinguetevi, diventate i signori della guerra”. Consumiamo l’esistenza in questa vana ricerca, giunge la vecchiaia e ci ritroviamo con un pugno di mosche in mano”.
L’etica del bushido[2] al tempo del colera, si direbbe, quando il vecchio mondo feudale sopravvive a sé stesso come vuoto simulacro (e tutte le scene girate nel mondo di Shigeaki, il signore del feudo, ne sono l’epicedio, tra amaro e divertito) e la miseria incombe ingiusta e logorante.
E allora un ronin che compie un gesto di profonda pietas, guadagnare denaro nel vicino dojo[3] con un’ esibizione di arte marziale per comprare viveri e sakè a quella povera comunità litigiosa e disperata, regalando una serata di festa, canti e risate, è l’eroe omerico che approda all’epica di Virgilio, è la “civiltà della colpa” che subentra alla “civiltà della vergogna”[4] , è il riflesso di una coscienza morale in un sistema valoriale fondato sul bene e sul male, non più sul bisogno di riconoscimento e sull'abilità nel corrisponderlo.
“Quello che importa non è cosa ha fatto, ma perché lo ha fatto”, dirà ferma e decisa la dolcissima Tayo, intervenendo inaspettatamente nel penoso colloquio in cui i due truci emissari del signore del feudo comunicano a Misawa che aver venduto la propria arte per denaro è macchia indelebile per un samurai.
La sua abilità, quella che aveva suscitato tanta ammirazione in Shigeaki, al punto da volerlo come maestro istruttore alla sua corte, non può sopperire al disonore.
AME AGARU è uno Jidai Geki chambara [5] evidentementeanomalo, e lo è anche rispetto ai già particolarissimi La sfida del Samurai e Sanjuro, in cui Mifune, con ironica severità, prestanza fisica e forza espressiva, aveva ribaltato tutti i canoni del genere.
Misawa è l’ “uomo samurai” di cui ci avrebbe parlato Akira se fosse vissuto ancora, e lo fa per bocca di questo suo fedele seguace, 25 anni di collaborazione all’ombra di un grande maestro e un film di cui raccoglie la sceneggiatura già scritta e gira come avrebbe fatto lui, e noi sentiamo quella mano invisibile nel riprendere il rigoglio della natura, nel fermare in fissità ieratica quadri di corte irrigiditi in costumi di guerra, nel cogliere le impercettibili variazioni di un volto, soprattutto femminile, in quell’incedere leggero, fluttuante, eppure denso di forza, pensiero, sentimento.
Tayo è l’ultima delle donne di Kurosawa, e questa volta Misawa ne rappresenta il perfetto completamento.
Sono all’unisono, gesti e parole di un uomo e una donna che si rispettano e amano.
E’ l’ultima, grande lezione che ci ha lasciato un immenso maestro: Kurosawa Akira
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[1] ronin è il samurai che in era Tokugawa(1603-1867) non vive più di ingaggi presso le corti feudali e gira vagabondando in cerca di lavoro saltuario, spesso come mercenario
[2] Bushido (la via del guerriero): codice di condotta e modo di vita dei guerrieri giapponesi, vicino al concetto europeo di cavalleria,fatto di norme di disciplina militari e morali quali onestà, lealtà, giustizia, pietà, dovere e onore.Il venir meno a questi principi causava il disonore del guerriero e l’espiazione mediante il seppuku, suicidio rituale.
[3] luogo di allenamento per arti marziali.
[4] Sul concetto di cultura della vergogna e cultura della colpa a partire dalla civiltà greca riflessa nei poemi omerici si veda Eric Robertson Dodds, I greci e l'irrazionale, 1997
[5] film di “cappa e spada” giapponesi;il genere Jidai Geki narra le vicende di samurai, contadini, fabbri, mercanti del periodo Tokugawa o dell’epoca Sengoku (1478-1605) ed il termine è spesso accostato al genere Chambara, combattimento con le spade.
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