Regia di Emir Kusturica vedi scheda film
Emir Kusturica è stato sempre un grande creatore di atmosfere. Soprattutto di quelle fredde e dimenticate, che occupano i luoghi nascosti, e fanno da sfondo ai sogni definitivamente delusi. Il suo tocco amaro le fa brillare, timidamente, come fiammelle votive. Già in questo lungometraggio giovanile, realizzato per la televisione iugoslava, Kusturica rivela l’essenza del suo lirismo del disincanto, divisa tra l’immobilità dell’oblio e l’inquietudine del vagabondaggio. Le esistenze dei personaggi si avvitano su se stesse, rassegnandosi alla prigionia della disperazione, oppure intraprendendo assurdi viaggi verso un altrove inesistente. Il mondo, là fuori, non c’è. C’è solo la locanda Jelena, isolata ai margini del bosco, gestita da una donna di mezz’età e dai due suoi figli, Martin e Jakov. I clienti sono spariti. Ogni tanto passa di lì un sedicente agente delle assicurazioni, proponendo una polizza con lo slogan meglio sicuri che dispiaciuti. Ma è solo una truffa, come lo, è in generale, il futuro. Le prospettive sono assenti, e gli unici sviluppi possibili sono la vecchiaia e la morte. D’altronde, anche in quell’ambiente minuscolo e silenzioso ci si può odiare fino ad uccidersi. E si può desiderare qualcosa fino alla follia, come, per esempio, generare un figlio, oppure diventare un poeta. Si può provare a forzare il destino con la violenza, oppure cercare salvezza nella fuga. Però la fine del dolore è un traguardo irraggiungibile. Questa storia è costruita intorno al vuoto lasciato da una vita che ha sfiorato gli individui, ma poi è passata oltre. Come hanno fatto i padri di Martin e Jakov, un boscaiolo e un minatore arrivati e ripartiti prima che i loro bambini nascessero. La gioia dell’esistenza è un bene che si consuma in fretta, come un bosco che si può abbattere in poche settimane, o un giacimento che viene abbandonato una volta estratto il primo strato di materia prima. Dopo non resta più nulla, se non la sterilità dell’attesa. Come quella, infinita, degli avventori che non si fanno mai vedere. Fino all’epilogo della storia, in cui, come spesso accadrà nei successivi film di Kusturica, il pessimismo svanisce, solo per un attimo, scacciato dalla musica popolare e dall’allegria della convivialità. L’illusione è di breve durata, perché la brutalità del destino e l’umanità, con la sua natura selvaggia, riescono, inevitabilmente, ad avere l’ultima parola. Arrivano le spose parla di un passato in cui il treno della felicità è stato perso, e di un presente in cui si scontano tutti gli errori commessi: un amore avventato, un matrimonio sbagliato, la sconsideratezza con cui si è scelto di vivere alla giornata, rimanendo vittime imbelli del tempo che passa. Si resta allora eternamente indietro, persino rispetto ai morti, che spariscono anch’essi dalla terra in cui sono sepolti. Si può tentare di aggiustare l’insegna del locale, poi decidere di cambiarla del tutto, ma i nomi non bastano a rincorrere ciò che, ormai, è scomparso dall’orizzonte, ed è irrimediabilmente lontano. La locanda Jelena (Zora) è il punto fermo nel nulla, quello a cui, tutt’al più, si approda perché ci si è smarriti, perché si sta per morire o perché si vuole sfogare un istinto. È il carrozzone disabitato in cui trovano riparo le anime smarrite; ed è il silenzio che precede e segue la fulminea esplosione degli umani furori.
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