Regia di Arthur Penn vedi scheda film
Jenny – Non sai chi ti cerca né di cosa ti si accusa.
Mickey – Sono colpevole.
Jenny – Di che cosa?
Mickey – Di non essere innocente.
Mickey One esce da un numero notevole di influenze ed impressioni che agivano in Penn dopo i suoi primi due film da autore/regista: lasciato libero nel soggetto e nel girare, volge l’occhio al Processo di Kafka, alla Nouvelle Vague, più che di Godard di Truffaut (si pensa al suo Tirate sul pianista) e più ancora di Malle, nonché all’amato Welles, ma non può non farsi influenzare da un certo clima fosco che si respira in America dopo la fine delle illusioni create dalla vittoria nella Seconda Guerra Mondiale, dopo la caccia alle streghe maccartista che aveva sconvolto il mondo dello spettacolo e, non ultimo, dopo l’assassinio di Kennedy e le teorie del complotto che ne erano scaturite. E tuttavia Mickey One resta un film abbastanza anomalo nel panorama cinematografico statunitense del periodo: forse soltanto Operazione diabolica (1966) di Frankenheimer riesce a trasmettere lo stesso senso d’inquietudine. Vi si ritrovano già parecchi degli elementi ricorrenti del cinema penniano, ed in particolare quello degli occhi (già evidente in Furia selvaggia, per non parlare di Anna dei miracoli), dello sguardo, dell’impossibilità di vedere coloro dal cui sguardo non ci si riesce a sottrarre, ma anche quello delle libertà negate, a cominciare dal diritto alla propria identità, cancellata da Mickey in un fuoco dal quale riemerge privo di un nome, che prenderà casualmente da un operaio d’origine polacca fatto fuori da dei gangster, il cui nome è talmente impronunciabile da essere stilizzato in un nomignolo che il protagonista si porterà addosso fino alla fine: quel Mickey One che, nella sua conformazione, non può non far venire in mente il Joseph K. del Processo kafkiano. Definito da Luca Malavasi (Il cinema di Arthur Penn, ed. Le Mani) «un saggio allucinato di antropologia della paura», Mickey One è un film spiazzante anche grazie alla colonna sonora (i rumori e le voci che si sentono in sottofondo) e musicale (il jazz di Eddie Sauter e Stan Getz), che per bocca del suo nevrotico protagonista pone degli interrogativi quasi teologici: «Che cosa vogliono? Non basta quello che faccio? Chi mi ha in mano? E perché?». Per la sfortuna critica (oltre che per i meriti intrinseci) che questo film ha subito nella cinematografia americana, ma perfino nella non sterminata filmografia di Penn, gli do il massimo dei voti.
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