Regia di Terry Gilliam, Terry Jones vedi scheda film
Uscita nel momento in cui lo show “Monty Python's Flying Circus” veniva considerato un fenomeno di massa nella terra d’Albione, “Il Santo Graal” fu la commedia low-budget che diede ai Monty Python la fama internazionale, diventando un classico istantaneo. Il soggetto, tanto essenziale quanto espandibile nelle sfumature più variegate possibili, era incentrato sulle irriverenti odissee di Re Artù, l'epico sovrano alla ricerca della coppa divina, interpretato sontuosamente dalla mimica sagace del lungimirante Graham Chapman (il quale simula tenacemente una cavalcata, in mancanza di mezzi). Al suo cospetto giungeranno un ammasso di contadini medievali ad un passo dalla repressione, una nefasta strega da mettere al rogo paragonata ad un’anatra, un cavaliere nero deciso a sbarrargli il cammino (si arriverà ad un bizzarro duello splatter dalle venature grottesche), un agglomerato di ostici e maleducati francesi pronti ad attaccare i nemici lanciando del bestiame, delle damigelle disinibite, dei guerrieri insoliti che torturano gli avventurieri dicendo "Ni", un nobile effemminato che vuole scappare dal castello nel quale dimora rifiutando di sposare la fanciulla selezionata dal padre, un coniglietto feroce pronto ad avventarsi sui malcapitati che provano ad affrontarlo, e un diabolico guardiano, il quale riserva delle pene terribili a chi non è in grado di rispondere alle altalenanti domande da quiz televisivo. Ci sono inoltre dei gradevoli ed esilaranti inserti musicali con le canzoni “Knights of the Round Table” e “The Ballad of Sir Robine” (quest’ultima proferita in compagnia del mitico Eric Idle, indispettito dai menestrelli che ne elogiano le valorose gesta, seppur l’indole codarda sia evidente), e degli interludi animati da Terry Gilliam, realizzati con lo stesso estro creativo e la medesima inclinazione burlesca delle strampalate vicende. Il metraggio sfoggia altresì delle ingegnose bandelle extra-diegetiche, dai crediti fuorvianti e stravaganti che si focalizzano sul misterioso “Moose” (un alce descritto in modo del tutto estemporaneo), fino all’amèna autocritica delle didascalie e le “tragiche” partecipazioni di personaggi esterni, come il prosatore iellato e addirittura le forze dell’ordine, le quali interagiscono con gli eventi in corso. Sebbene si possa pensare il contrario “Monty Python and the Holy Grail” ha comunque una struttura narrativa coriacea, impregnata di un eloquente umorismo parodistico, e lastricata con delle icastiche osservazioni sulla dottrina religiosa e dei salaci riferimenti sulla retorica marxista. Anche la tecnica è notevole, dalla fotografia calda e psichedelica di Terry Bedford ai curatissimi costumi d’epoca di Hazel Pethig. Il divertimento non è mai sottratto dalla forma, ed è un piacere rimanere inebriati dal vis farsesco dell’intera troupe dei Python, impegnata a ricoprire diversi ruoli buffoneschi (perfino otto o nove maschere per ogni componente), ed abile nell’intrattenere il pubblico senza inceppare nell’insipidezza della raffigurazione, facendosi apprezzare nondimeno per l’incisività delle gags meno memorabili dello script. Se proprio si vuole trovare un difetto si potrebbe obiettare sulla chiusa non risolutamente soddisfacente, in quanto non conclude effettivamente la storia, ma questa è una scelta stilistica contemperata al tono nonsense che caratterizza molte porzioni dell’opera di Gilliam e Jones. Satirico, assurdo e ben orchestrato “Il Santo Graal” si conferma uno degli exploit più iconici del celebre gruppo di performer britannici. Da vedere assolutamente in inglese, magari con i sottotitoli per non farsi sfuggire nulla (il superficiale doppiaggio italiano si concentra sui dialetti regionali della penisola, il toscano in particolare, non catturando il significato di parecchie boutade).
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