Regia di Henri Decoin vedi scheda film
Richiamato dagli Stati Uniti per riorganizzare il traffico di droga a Parigi, Henri Ferré detto "Le Nantais" (Jean Gabin) è alle dipendenze del boss Liski (Marcel Dalio), che gli affida il bar "Le Troquet" come copertura e quartier generale. Lisette (Magali Noël), la cassiera del locale, si innamora presto di lui, mentre i due scagnozzi Roger le Catalan (Lino Ventura) e Bibi (Albert Rémy) si occupano di eseguire gli ordini di Liski spalleggiando Henri nella ristrutturazione della rete della droga. Ma "Le Nantais" sembra comportarsi in modo strano...
Uscito nelle sale parigine il 7 aprile 1955, "La grande razzia" è il secondo dei tre polar fondativi del genere: difatti, assieme a "Grisbi" di Jacques Becker (uscito nel marzo del 1954) e a "Rififi" di Jules Dassin (uscito il 13 aprile 1955), "Razzia sur la chnouf" stabilisce il canone del noir alla francese: narrazione secca ma con particolare attenzione alle psicologie, rappresentazione realistica del sottobosco criminale e un certo gusto romantico per i rapporti umani che si traduce in notazioni minute (le bevande, il cibo, le piccole debolezze quotidiane) e in risvolti sentimentali di trattenuta tenerezza.
Adattamento dell'omonimo romanzo di Auguste Le Breton (autore di spicco della "Série Noire" e presente nel film in una breve apparizione come biscazziere), "La grande razzia" è il primo polar in assoluto a confrontarsi direttamente col tema della droga (presentato come un autentico flagello nella didascalia iniziale) ed è il primo ruolo poliziesco di Gabin, che fino ad allora aveva vestito prevalentemente panni criminali o tragici (da "Pépé le Moko" di Duvivier al già citato "Grisbi", passando per i personaggi tormentati de "L'angelo del male" di Renoir o "Alba tragica" di Carné).
Eppure, nonostante gli indubbi meriti fondativi, il film di Henri Decoin (un cineasta appartenente alla generazione dei registi francesi "di qualità") è nettamente inferiore sia al precedente "Grisbi" che all'immediatamente successivo "Rififi": se rispetto al polar di Becker evidenzia forti limiti drammatici ed evocativi (la narrazione si dispiega assai schematicamente e le atmosfere difettano di suggestività), rispetto alla pellicola di Dassin tradisce una scarsa originalità stilistica (le sequenze che si vorrebbero più espressive e scioccanti, come quelle dedicate agli effetti della droga, si risolvono in triviale sensazionalismo). Restano invece impresse nella memoria la rocciosa interpretazione gabininana e, soprattutto, la feroce brutalità del duo Ventura/Rémy, "truands" dai modi spicci e dal grilletto facile che non esitano un istante ad imbracciare revolver e mitra per ingaggiare sparatorie all'ultimo sangue con la polizia, anche quando ormai tutto è perduto.
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