Regia di Orson Welles vedi scheda film
Poco del Welles che è stato, molto di quello che sarà. Prima di tutto la parola poi l'immagine. Il testo deve essere rispettato la voce fuori-campo deve essere monologo interiore e viceversa. La finzione del realismo è svelata da una scenografia che non teme di mostrare la sua artificiosità. Davanti a tutto c'è la presenza attoriale del nostro che usa la sua faccia come l'arma di un genio che non esita ad eccedere a rompere gli argini. Questo Macbeth mi ha fatto pensare ad un incontro straordinario tra il Corman orrorifico e l'ultimo Fassbinder, il barocco e l'essenziale. Il suo stile di cinema qui comincia a delinearsi come il punto mediano tra una rilettura post-teatrale e un anticipo delle riduzioni televisive che verranno dove la fedeltà al testo è tutto. L'architettura del film è facilmente imponente per accompagnare il viaggio autodistruttivo di un uomo-attore costretto dalla sua natura a fare il Re. Le lenti grandangolari diventano la tecnica per distinguersi, per non seguire mai la moda altrui. Un film affascinante, realizzato senza successo di pubblico in pochi giorni, prima che il regista americano vada in Europa a cercare maggiore considerazione.
Il futuro sarà pieno di progetti cominciati e non finiti, poche volte riuscirà a dire cosa fatta capo ha, questo è il primo progetto a suo modo estremo oltre che letterario, come quello di recitare Moby Dick mettendoci solo la faccia. Quarto Potere rimane intoccabile, ma il Welles più affascinante insieme imperfetto e incontenibile abita qui. Cinema per pochi per quelli che non hanno paura di frequentare luoghi disabitati e isolati dal resto del mondo-cinema.
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