Regia di Edgar Reitz, Anatol Schuster vedi scheda film
La regina Charlotte vuole un ritratto del suo educatore Leibniz, per potergli fare sempre delle domande e poter immaginare le sue risposte. L’opera viene commissionata a un pittore tedesco molto superficiale, che chiede al grande filosofo matematico di cambiare continuamente posa ed espressione, e che non sta al passo delle profonde domande che il suo soggetto gli pone e si pone a proposito di quale verità possa essere intrappolata in un ritratto dipinto se quello non potrà mai essere reale sostituto della persona vera. Per rimediare, la madre della regina assolda una pittrice, stavolta fiamminga, che si presenta con una tela nera: vuole tirar fuori Leibniz dal buio e portarlo alla luce.
Ha inizio così il confronto fra il filosofo e la pittrice Aaltje Van De Meer, una partita speculativa che dal principio di identità viaggia attraverso realtà e rappresentazione, teorie della tecnologia, principi del modello atomistico e perfezione di Dio. Il punto? Scolpire su quelle idee un’immagine di Leibniz, della sua forma-pensiero, provando a illuminarlo con un complesso sistema di specchi che rifletta una luce più forte e riveli la verità. Nessuna tensione voyeur, niente di epidermico: i due protagonisti devono guardarsi attraverso, conoscersi per interpretarsi, argomentarsi per esplorarsi, in una sessione di meditazione sulle cose grandi dell’esistenza.
Edgar Reitz, con la co-regia di Anatol Schuster, fa un film come non se ne fanno più, con una freschezza declinata al futuro. Il suo incipiente Settecento è una tana di scoperte, una montagna di ottimismo illuminista che si giova di un mondo che di quelli possibili è il migliore. Checché ne dica John Locke, checché ne dicano sedicenti filosofi che scopiazzano Lucrezio, checché ne dicano malattie e morti. Un mondo in una stanza, in un fiume di parole di saggezza dialettica. Le invenzioni e le teorie di Leibniz - si cita anche il sistema binario, e si vede una versione primitiva di una calcolatrice - sono la scusa, per il grande regista tedesco, di stringersi in quella stanza coi corpi dei suoi protagonisti, scolpendoli con la luce che arriva dall’alta finestra, vivisezionandone l’anima e riscoprendo la bellezza del ragionamento logico, lontano dal grigiume che al ragionamento spesso viene (e veniva) imputato. Chi altri sarebbe riuscito a rendere quasi melodrammatico un discorso sulla presenza del tempo nello spazio bidimensionale di un dipinto? Qualcun altro, sì, ma non in un secolo di cinema (questo) che non crede, come Reitz, alla vera consistenza delle parole. E mentre il cinema nasce come ragionamento metariflessivo inevitabile e spontaneo da un miracolo coreografico di battute e apparizioni (la farfalla, la camera oscura, la stanza segreta, sono già scene indimenticabili del cinema di tutti i tempi, e parlano di proto-cinema quando non esisteva neanche la fotografia), Leibniz recupera una magia sacra del fare film che pareva sepolta, stare in sala come andare a Messa e attingere da un mistero di Fede.
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