Regia di Guillaume Ribot vedi scheda film
“La mort et sa radicalité.” Postilla a Shoah di Claude Lanzmann. Forse uno special da aggiungere alle mitiche nove ore e mezza di un capolavoro del documentario, o forse qualcosa in più. Guillaume Ribot monta con ritmo lirico e delicato tanti diversi materiali della tribolatissima lavorazione di Shoah come occasione per confrontarsi con le intenzioni del suo autore, dimostrando che il processo alle intenzioni di un film dovrebbe sempre corrispondere a un secondo film ancora e mai a un’analisi del primo.
Rielaborando testi e memorie di Lanzmann, Ribot riporta in voice over i dilemmi di un regista che, spinto da un’empatia sconfinata, vuole “riportare in vita” le vittime della più grande tragedia del Novecento per “farle morire ancora, ma stavolta non da sole”. Uno sforzo ultra-umano per la conquista di una traccia che ci costringa a guardare dentro il nero della morte, senza mediazioni.
Oltre ad essere un’eccezionale occasione per confrontarsi attivamente con le modalità guerrigliere della regia di Lanzmann, modalità di fronte alle quali impallidirebbe anche Michael Moore, Je n’avais que le néant disdegna l’acritica agiografia per abbracciare il senso di fallimento umano che ha provato Lanzmann realizzando un capolavoro cinematografico ma non riuscendo a lasciare le tracce che avrebbe voluto, quelle che avrebbero messo in ginocchio i troppi scagionati (o mal condannati) al processo di Norimberga. Contro ogni banalità del male, il documentario di Ribot - lontano dal semplice making of o dalla semplice raccolta di scene tagliate - asseconda l’idea di un cinema attivista come dell’unico possibile di fronte al problema dell’irrapresentabilità della Storia, trasformando gli sforzi di Lanzmann negli sforzi cui tutti dovremmo sottoporci per guardare oltre il nostro naso e vedere anche l’invisibile, sia in un lontanissimo avanti che in un cronologico indietro.
Non ci sono commenti.
Ultimi commenti Segui questa conversazione
Commenta