Regia di Guy Debord vedi scheda film
La transitorietà del tempo, nell'esistenza dell'individuo come nell'evoluzione della storia, è per Debord la prova inoppugnabile che la vita della società deve essere finalizzata al costante cambiamento, ad un agire libero e creativo, svincolato dai limiti spaziali e mentali precostituiti, di cui il paesaggio urbano è la concreta metafora. La suddivisione della città in quartieri, ognuno con le proprie regole e caratteristiche, e le case costruite come fortezze atte a proteggere gli abitanti dall'influenza della strada, sono gli aspetti più manifesti di un incasellamento fisico e psicologico fondato sulla tradizione. Quest'ultima è vista da Debord come il principio, imposto dall'alto, della passiva ripetizione del passato, con cui verrebbero continuamente riproposte le stesse "rovine" preconfezionate, impacchettate nel lustro involucro della leggenda. In questa operazione, buona parte della responsabilità ricadrebbe sul cinema, uno strumento immobile e potente, con cui i "dirigenti" somministrano alle masse enormi quantità di ricordi logori ed inutilizzabili. In questo cortometraggio la decontestualizzazione delle immagini filmate, che Debord chiama "détournement", è più che mai funzionale allo scopo saggistico: essa, astraendo l'attenzione dal contenuto specifico, la indirizza verso le tecniche di ripresa, improntate al movimento e al cambio di prospettiva, oltre che allo stacco sulla singola persona, che così viene resa protagonista di per sé, in quanto indipendente dall'ambiente circostante.
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