Regia di Lindsay Anderson vedi scheda film
Film che riveste un certo interesse per l'aneddotica relativa a McDowell, ma sarebbe un errore pensare che viva solo di luce riflessa, e la Palma d'Oro di cui è stato insignito lo certifica.
Non può certo definirsi come un film qualunque l'opera che ha rivelato Malcolm McDowell al mondo e soprattutto a Kubrick. E in un certo senso questo If... ci regala un personaggio protagonista (Mick Travis) e uno spaccato sociale non di molto dissimili da quello di Arancia meccanica, pur con tutti i distinguo vari ed eventuali. Travis è un allievo ribelle che assieme ai suoi due compagni di stanza (dei Drughi ante litteram?) non riconosce la rigida gerarchia del suo plurisecolare istituto, e rifiuta quindi l'auctoritas significata da rettore, reverendo, prefetti, e via discorrendo. Il modello è sempre il seminale Zero in condotta del '33, come per tutti i lavori che trattano di fermenti giovanili contro un potere precostituito consolidato (la sparatoria finale dai tetti sembra una citazione sfacciata della corsa sui tetti dei ragazzini di Jean Vigo). Travis è frenato dalla repressione della spietata macchina collegiale, ha tensioni ultraviolente (peraltro molto intellettualizzanti, non dettate dall'istinto animale) che però solo sporadicamente trovano una loro realizzazione concreta. Ed intanto assistiamo ad episodi di nonnismo, se non proprio pederastia, da parte dei "prefetti", che approfittando del loro potere spadroneggiano su tutti gli altri studenti, punendo chi, come Travis e i suoi due compari, non si adegua. Possiamo quasi azzardare che ci sia un'inversione delle vicende rispetto al film di Kubrick: qui McDowell viene prima frenato dal sistema per poi ridicolizzarlo, in Kubrick prima si prende gioco dei vecchi "bigi" salvo poi venire inquadrato fatalmente nei loro programmi. E' un sistema sbagliato quello di If... , non si può dire che sia qualcosa di mai visto nella storia del cinema, ma la messa in scena di Anderson è comunque assai accattivante. La divisione in capitoli e la climax ascendente fino all'epilogo cruento e vendicativo disegnano una metafora intrigante dei ribellismi sessantottini. E l'iconico Alex DeLarge, se si scrosta la superficie della pellicola, affiora immediatamente.
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