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Va' e vedi

Regia di Elem Klimov vedi scheda film

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La recensione su Va' e vedi

di Peppe Comune
8 stelle

Siamo nel 1943, in Bielorussia durante la seconda guerra mondiale, tra i villaggi circondati da una rigogliosa foresta e da campi buoni per l’agricoltura.  Di fronte alla fiera resistenza di gruppi di partigiani e all’avanzata decisa dell’esercito russo, i nazisti decidono di lasciare la terra di Russia, intenzionati comunque a rimanere solo macerie e distruzione dietro la loro ritirata. Il risultato fu che 628 villaggi vennero bruciati con tutti i loro abitanti. Questo fatto storico fa da sfondo alla storia di Florya Gaishun (Aleksei Kravchenko), un adolescente costretto a crescere troppo in fretta. Un giorno, mentre insieme ad un amico scava delle buche nella sabbia per dissotterrare materiale bellico di diverso tipo, Florya trova un fucile nuovo di zecca. Ora il ragazzo ha un’arma tutta sua e pensa che finalmente può unirsi nella battaglia con il gruppo di partigiani della zona. E’ così che Florya si avvia con un’improbabile valigia di cartone incontro ad un destino che non può più sfuggire, E’ con uno stato d’animo azzerato dalla paura che Florya penetra nel cuore nero della guerra contro i nazisti, registrandone tutta l’inumana brutalità.

 

scena

Va' e vedi (1985): scena

 

 

“Va’ e vedi” di Elem Klimov è un film dalla potente carica seduttrice, sia quando ci immerge con fare descrittivo nelle atrocità della guerra, sia quando si prodiga a rendere per immagini la precarietà emotiva del giovane Florya. Per come è strutturato il film, è praticamente impossibile non trovarvi analogie con “L’infanzia di Ivan” di Andrej Tarkovskij. Identici sono il momento storico e la rigogliosa ambientazione boschiva in cui entrambi i film si sviluppano. Inoltre, seppur con ventitre anni di distanza e con differenti contesti socio-politici alle spalle, in comune hanno la volontà di affrancarsi dalla grande tradizione del formalismo sovietico per giungere ad un linguaggio cinematografico rinnovato che, alla lezione dei maestri, associa maggiore libertà espressiva, afflato poetico e rigore stilistico. Infine, uguali sono due tra i temi portanti del film : da un lato, l’infanzia negata dei ragazzi, costretti dagli eventi a dover crescere troppo in fretta e troppo in fretta costretti a mettere nel cassetto i sentimenti più belli ; dall’altro lato, il fatto che l’orrore della guerra viene filtrato attraverso la compromessa condizione psicologica dei due giovani protagonisti.  Ma mentre il film di Tarkovskij fa emergere l’intento di inserire la guerra in un quadro di riferimento più ampio, e quindi di riflettere in chiave “poetica” sul senso della storia e sul rapporto speculare tra le forze della natura e il genere umano, Elem Klimov, invece, con “Va’ e vedi”, nel riprodurre un particolare episodio della storia del suo paese durante il secondo conflitto mondiale, ci porta direttamente dentro gli effetti devastanti della guerra, senza troppe digressioni speculative, nella maniera più cruda e materica possibile.

Già il titolo suona come un ammonimento, “le uniche parole che può dire chi ha visto a chi ignora” (come ha scritto acutamente Paola-Yume nella sua bella recensione), un invito a starci in prima persona nel turbine dei fatti che si raccontano, a vedere ciò che è impossibile rendere con le parole, a penetrare il senso delle cose e a non rimanere in superficie. Occorre fare esperienza diretta per poter condannare la guerra in quanto tale, colmare gli occhi di sgomento, oberarsi di distruzioni. Questo è quello che fa Emel Klimov attraverso il viaggio agli inferi del povero Florya, che diventa il tramite inconsapevole di una tragedia umana che si vuole raccontare senza mezzi termini, una tragedia che non basta a se stessa, che non è circoscrivibile in una delineata dimensione spazio temporale, ma che si fa emblema attendibile di ogni forma di male prodotto dalla guerra.

La forza di questo film sta nella regia, che attacca ogni inquadratura come per renderci il più partecipi possibili della materia rappresentata, indirizza e asseconda l’evolversi della storia in base alle circostanze, giocando con i simboli in maniera sobria ed efficace, sfumando il dramma in spruzzate di ricercata leggerezza. Già l’inizio del film presenta tutti questi ingredienti. Sembra un gioco quello di Florya, che fa smorfie e parla strano come se stesse prendendo in giro qualcuno. Trova un fucile mentre è insieme ad un suo amico a scavare buche nella sabbia alla ricerca di oggetti militari. L’aria scanzonata cambia di tono proprio in nome di quel fucile ritrovato, che interviene a segnare irrimediabilmente la separazione tra il momento della spensieratezza infantile e quello dell’innocenza negata, tra il momento in cui la guerra è avvertita come una cosa, si imminente, ma ancora esterna rispetto al proprio piccolo mondo, a quello che, invece, ti fa entrare la guerra direttamente nelle ossa, imprimendola negli occhi come una tragedia senza fine. Il ragazzo si rende testimone di un dramma che non fa sconti, molto più che disumano nel suo incedere distruttivo, e la regia di Klimov è attenta a far emergere tutto il suo disagio emotivo in una maniera che va aldilà della “semplice” esposizione dell’orrore. Lunghe carrellate, utilizzo fluido dello zooming, riprese in soggettiva, primi piani dettagliati, è con l’ausilio della tecnica cinematografica che l’autore russo ci porta dentro il ventre molle della guerra, fino a far aderire gli occhi terrorizzati di Florya con l’obiettivo della macchina da presa, che non fa altro che tradurre in immagini la rappresentazione più prossima dell’inferno terreno. Non si mostrano solo corpi sventrati dai cingolati, cadaveri in putrefazione, villaggi dati alle fiamme, alberi sradicati dalle bombe, raffiche di mitra che tagliano l’aria come raggi laser, ma anche la pace contadina irrimediabilmente corrotta dall’odio, la serenità boschiva illuminata dal fuoco dei lanciafiamme, l’umiliazione di un popolo inerme costretto a subire senza poter opporre resistenza le angherie del nemico. Insomma, la regia accompagna e indirizza insieme il contenuto esplicitato dalle immagini, contrappuntando il tutto con un sonoro “stizzito” che interviene spesso ad accrescere il senso panico che si vuole ottenere. Elem Klimov segue un andamento febbrile, alternando parti dove si segue una linearità narrativa corredata dalla rappresentazione esplicita dell’orrore nazista, ad altre dove invece a farla da padrone è un assetto più visionario, teso a far si che lo stato psicologico di Florya coincida con l’impossibilità di dare una descrizione precisa ai fatti di cui è testimone. Se si vuole, i suoi occhi intasati di terrore, increduli di fronte a tanto male, sono i veri protagonisti del film, l’elemento discriminante tra ciò che si vede e si posa pesantemente nell’animo e quello che è impossibile rendere con le parole. Va’ e vedi, appunto.

Parole quanto mai esplicite sono quelle usate da un soldato tedesco, il quale, in un impeto di impavida apologia nazista, dice che non “tutti i popoli hanno diritto alla vita. Le razze inferiori diffondono il germe del comunismo. Voi non dovete esistere. E la missione sarà compiuta. Oggi o domani”. Ecco, tutto l’orrore che gli occhi di Florya hanno dovuto subire trova la sua malefica matrice nel delirio ideologico di un nazista. Ma non bastano la parole per dare un senso a tanto male, non può bastare quello che i fatti conclamati hanno consegnato alla storia come un’ esperienza atroce. Gli occhi mostrati da Klimov dicono molto altro e al cinema è possibile ridiscutere sul senso della storia conferendo forza simbolica alle immagini. E allora, ecco Florya sparare per la prima volta contro un effige di Hitler, una, due, tre volte, come se fosse carne da maciullare. E allora, ecco la sua rabbia esausta alternarsi al susseguirsi di immagini del nazismo, che passano su schermo come se qualcuno stesse riavvolgendo un nastro per far ritornare indietro la storia (si scorge anche una foto del dittatore bambino). E allora, ecco ancora gli occhi spiritati di Floryan, senza neanche più lacrime da piangere. Infine, ecco il Requiem di Mozart accompagnare la macchina da presa, che apre il suo angolo di visuale oltre i partigiani che sfilano in colonna e oltre gli alberi secolari della foresta di verde agghindata, fino al cielo che non conosce fine. Grande cinema.  

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