Regia di Jonathan Mostow vedi scheda film
Anche Terminator 3, come i suoi protagonisti, risorge dalle ceneri, quelle della casa di produzione carolco, cosÌ legata all’immaginario muscolare degli anni ‘80 e fallita poco dopo la chiusura di quel poco glorioso decennio. È vero che con Terminator 2 lo stesso James Cameron aveva tentato, nel 1991, di aggiornare il mito del cyborg all’evoluzione del genere e degli effetti speciali (primo utilizzo strategico del morphing), ma il nostro laconico e teutonico robot resta indissolubilmente legato al suo anno di fabbrica, il 1984. Così anche questo terzo episodio, non proprio necessario, rilancia quella fantascienza un po’ demodé che ancora si immagina scenari postatomici, macchine in rivolta, uomini costretti a nascondersi come topolini nei bunker della guerra fredda. Se qualcosa di interessante c’è nel film di Jonathan Mostow, che di sicuro non è un cretino, è il finale. Scusate il mezzo “spoiler”, ma la trovata di legare “quel” futuro al passato kennediano di una “nuova frontiera” che porta dritto dritto in un rifugio antiatomico, ha un che di geniale. Per il resto, ordinaria amministrazione. Schwarzenegger buono ci dava già fastidio nell’episodio 2, il quale, nonostante tutto, era comunque inferiore all’episodio 1. Siccome il canovaccio di base è sempre lo stesso (le macchine del futuro cercano ancora di far fuori John Connor), gli autori hanno pensato bene di variare gli addendi, consapevoli che se il risultato non cambia è meglio. Così il cattivo di turno (ovvero il cibernetico messaggero di morte) è stato trasformato in una cattiva, e per ancorarla all’attualità del genere la si è chiamata Terminatrix (detta anche, dagli amici, T-X), ibrido in carne e metallo tra Matrix e il mondo di Cameron. A lei si devono i momenti più gustosi, ad esempio l’idea di attaccarla a una calamita. Sempre gradevole il lavoro di Stan Winston, uno dei più creativi make up artist di Hollywood.
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