Regia di Dag Johan Haugerud vedi scheda film
“Non mi interessa come appare, l’amore. Mi interessa quello che fa sentire.”. Questa è più o meno la conclusione di Johanne alla fine di Dreams, secondo capitolo della trilogia che il norvegese Dag Johan Haugerud ha dedicato a una sorta di educazione affettiva e sessuale dell’essere umano ai tempi dell’autoanalisi e del mito della libertà dei sentimenti. I suoi personaggi infatti parlano, si parlano addosso e a vicenda e, in Dreams, parlano anche a noi spettatori (la voice over di Johanne è insistentemente narrativa a nostro uso e consumo), aggrovigliando i fili di una varietà umana spesso irriducibile, complessa. Tanto che, più che capirla razionalmente (o psicoanaliticamente), andrebbe concepita come una coralità di pennelli che tracciano un disegno spontaneo, dolcemente incasinato.
Come in Sex e in Love, in Dreams i sentimenti e il sesso sono argomento costante e opprimente, quasi a tal punto da far perdere ai personaggi la percezione della propria posizione (geografica, urbanistica, sociale). Ricchi e benestanti, di solito si perdono nei loro ragionamenti tanto da annullarsi, perdersi in un bosco di notte o attraversare un grigio quartiere di uffici come fosse la proiezione paradossale dei battiti impazziti del loro cuore. Diversamente da Sex e Love, in Dreams la dissociazione delle persone dai luoghi è punto critico e di rottura, probabilmente la finezza con cui Haugerud riferisce come sia difficile per loro “vedersi da fuori” e “analizzarsi”. Il mito dell’autoanalisi, o dell’analisi a tutti i costi, si sfata irrimediabilmente col caos, così che il gesto spontaneo finisce irrigidito dalle interpretazioni prevenute degli altri, che sono schietti e in buona fede ma sembrano poter arrivare solo e irrimediabilmente a una più grande e trasversale bugia. Quella per cui, per l’appunto, sarebbe possibile capire gli altri e capire se stessi per davvero.
La diciassettenne Johanne, che si innamora della sua insegnante d’arte, scrive un libro in cui racconta la relazione ambigua con la donna, mai sfociata nel sesso. Scrive il libro come sfogo personale, ma la nonna poetessa e la madre apprensiva vedono quelle confessioni come qualcos’altro, a volte non riuscendo a separare il loro contenuto dalla persona di Johanne, a volte maturando l’idea che quel libro ormai sia fuori da Johanne, e possa rappresentare qualsiasi altra cosa. Potrebbe essere un romanzo, addirittura. Forse può avere anche un messaggio queer utile per gli altri giovani. In questa confusione dissociativa (dai luoghi, dai racconti, dalle parole e dalle idee), spettro inesorabile dell’incoerenza, Haugerud stringe sulle tre protagoniste (e sulle loro tre diverse generazioni) addolcendo la pillola e trasformando dialettiche spigolose in aggraziati momenti di grande scrittura, con punte di agrodolce umorismo. Le sue sono commedie pragmatiche, e Dreams è quella che fa, più praticamente di tutte, perno sulle sue stratificate modalità narrative: la voce fuoricampo di Johanne potrebbe essere il libro che ha scritto, che esiste diegeticamente, ma non è così; potrebbe anche essere una verità come una bugia, alcune cose potrebbero sfuggirci; alla fine quella voce è qualcos’altro, viene in effetti rivelato. Ma viene sussurrata anche un’altra cosa, e cioè che forse non è servito a nulla raccontare questa storia in questo modo. Non sarebbe stato utile in nessun modo. Johanne farà quello che vuole e in modo imprevedibile. E infatti Dreams è più sul come che non sul cosa, il cosa è un fatto intimo dei personaggi e Haugerud rispetta la loro intimità emotiva come un narratore morale d’altri tempi.
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