Regia di Eli Roth vedi scheda film
Prima che il contagio si estendesse a livello globale (cinematograficamente parlando s’intende, vedi il remake de “La città verrà distrutta all’alba”, i sequel di “Resident Evil”, il recentissimo “World War Z” e innumerevoli film affini), e in pseudo-concomitanza con “28 giorni dopo” di Danny Boyle (2002), Eli Roth ha l’intuizione di (ri)portare il tema dell’epidemia a livello di “nucleo-di-teenager-in-cerca-di-svago-per-il-weekend”. Per la precisione, scegliendo di collocare il virus nei dintorni di quella casa nel bosco che tempo addietro si trovava nei pressi di Crystal Lake e poco dopo passò di mano a Raimi per il suo capolavoro del 1981.
In altre parole, cita e omaggia i classici per aggiornare il vecchio al nuovo (poiché nel 2002 l’horror oscillava ancora tra “Scream” e “The Blair Witch Project”).
Quindi sì, “Cabin Fever” è soprattutto una lungimirante e sapiente operazione di aggiornamento, dotata del mirabile talento di un esordiente che mescola e (s)combina le carte a proprio piacimento, arrivando a comporre un mosaico ben più affascinante di tanti quadri pianificati invece a tavolino.
Realizzare un film come quello in analisi significa, in altre parole, ideare una nuova, strabiliante e appetitosa ricetta da prepararsi utilizzando gli avanzi del giorno prima.
Fuor di metafore, è un horror avvincente, crudo, serrato e conciso, nonché piacevolmente disgustoso nelle sue tante impennate splatter.
Nel proprio genere forse è addirittura perfetto: non vi si potrebbe aggiungere nulla, perché rischierebbe di essere di troppo, così come non gli si potrebbe togliere alcunché, perché tutto si rivela in fin dei conti indispensabile.
Con il bosco come autentico e inquietante protagonista, la pellicola è continuamente attraversata da molteplici frecciate grottesche e stralunate (tra le tante, la fugace apparizione di un infermiere con una maschera da coniglio) che impreziosiscono il risultato contribuendo a rendere il tutto ancora più enigmatico.
La piccola comunità di montagna vista come chiusa e ostile nei confronti di chi arriva da fuori, viene dritta dritta da certo cinema (più o meno) di genere degli anni ’70, mentre è tutta attuale la non trascurabile riflessione sul sesso come possibile fonte di diffusione del contagio in atto (una paranoia che si legge HIV).
Il finale poi è assolutamente da applausi.
In definitiva un indubbio cult movie, non certo seminale come invece lo sarebbe stato il successivo capolavoro dell’”enfant prodige” Eli Roth, “Hostel”.
Non ci sono commenti.
Ultimi commenti Segui questa conversazione
Commenta