Regia di Eli Roth vedi scheda film
Molti horror recenti stanno recuperando sapori e suggestioni passati. Anacronistici, magari, e non tutto funziona, ma spesso sono una boccata d’aria fresca (paradossalmente?). Attualmente il genere sta dimostrando di nuovo il suo valore. Cabin Fever è come un film degli anni ’70: un gruppo di vacanzieri si inabissa nella natura, dove però incontrerà un morbo che a poco a poco lo “scioglierà”. Roth (uno che ha bazzicato nella Troma) conosce strumenti e meccanismi, e si vede. Se la prima parte va via senza che accada quasi niente, in mezzo a un mare di chiacchiere spesso sceme, la seconda è un’orgia di sangue che scorre e carne che si disfa, politicamente scorrettissima, tra contagi, virus e nudità. Sembrerà strano, ma pur essendo un’anarchia che ha già avuto modo di esplicitarsi trent’anni fa, non ha perso un grammo della sua capacità deflagrante. Roth sa anche che un po’ di ironia non fa mai male. Lo sguardo del produttore esecutivo David Lynch (che ha una persona del “suo staff” tra i credits: Angelo Badalamenti alle musiche) è molto esplicito: nella figura inquietante sulla veranda e nel personaggio del poliziotto, per esempio, come fossero schegge dalle sue opere. Cinema che non pretende di dire alcunché sulla contemporaneità: soltanto un prodotto, ma di buona categoria.
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