Regia di Eli Roth vedi scheda film
Divertente opera prima del discontinuo Eli Roth (vera promessa mancata dell'horror moderno). Sempre in bilico tra atmosfere lynchiane, rimandi all'horror classico e scene splatter decisamente deliranti, il film è un compendio di orrore e comicità piuttosto riuscito e non privo di schegge politiche.
Anche Eli Roth è stato grande. Pupillo di Tarantino e grandissimo cultore di cinema - come dimostra la bellissima serie Eli Roth's history of horror - Roth pareva un tipetto piuttosto talentuoso e sembrava dovesse diventare la punta di diamante dell'horror moderno, salvo poi perdersi dopo i primi due film in una discontinuità piuttosto preoccupante.
Eh sì. Nonostante un inizio fulminante come Cabin Fever e un cult a dir la verità non eccelso ma pur sempre dignitoso come Hostel, l'opera del regista statunitense ha disegnato una spirale discendente da fare invidia anche al Trent Reznor di The Downward Spiral, toccando degli apici di vera e propria bruttezza piuttosto inaspettati (si pensi soltanto a Knock Knock, film da denuncia penale).
Ma qui stiamo parlando di CABIN FEVER, opera prima di Eli Roth datata 2002, che si staglia nella sua produzione come una sorta di faro, di monito per ricordarci chi sarebbe potuto diventare questo promettente regista nato nel Massachusetts.
E per i 20 dall'uscita di Cabin Fever è giusto dare a quest'opera i meriti che le spettano.
La trama è piuttosto indovinabile: finiti gli esami, cinque amici vanno con la macchina di uno di loro a passare l'estate in uno chalet nel bosco (ricorda qualcosa?), isolati dalla civiltà e in una zona in cui i telefoni non prendono. Ben presto la situazione inizia a degenerare: una strana malattia che si manifesta su tutto il corpo con bolle e vescicole comincia a infettare uno per uno tutti i cinque protagonisti, scatenando il panico. E anche i pochi abitanti ai margini del bosco non sembrano troppo intenzionati ad aiutare gli sfortunati ragazzi...
I rimandi all'horror classico sono piuttosto visibili, e in particolare a La casa - film che a detta dello stesso Roth ha ispirato più di tutti la realizzazione di Cabin Fever. Tutto infatti sembra ricordare il classico dell'horror diretto da quel genio di Sam Raimi: l'ambientazione con bosco impenetrabile e chalet su un piano solo, il gruppo di ragazzi (sempre cinque), le soggettive del cane "ad infrarossi" che inseguono i personaggi quasi radendo il suolo...
Non si pensi però che la mania citazionista di Roth - molto tarantiniana a dire il vero - si fermi a La casa e basta: certe trasformazioni che la malattia provoca sulla carne non possono non ricordare il body horror di Cronenberg, così come le dinamiche del gruppo (confinati in uno spazio obbligato, devono fronteggiare un nemico invisibile che si può nascondere dentro chiunque) non può non ricordare La cosa di Carpenter, con tanto di isolamento dei sospetti. La parte finale invece è un chiaro omaggio/parodia dell'opera di Romero - col quale condivide in chiave minore l'aspetto politico, tra La notte dei morti viventi e La città verrà distrutta all'alba -, mentre la scena di caccia in cui uno dei nostri ragazzi si imbatte per la prima volta nell'eremita che diffonde la malattia a me ha ricordato la scena iniziale de La congiura degli innocenti di Hitchcock.
Il film non è però solo un collage di temi già presentati da altri ben più illustri autori, perché, sotto la patina decisamente derivativa, si nasconde una profonda operazione dissacrante e irresistibile gestita dal giovane Roth con notevole perizia. Sì, perché Cabin Fever è un film personale, un film che ha un'anima e una propria idea di cinema, che parte certo da Raimi, da Carpenter, da Argento... ma arriva a essere pura e di certo memorabile.
Roth dimostra di conoscere bene il genere, omaggia l'epoca passata dell'horror classico e la rielabora sapientemente arrivando a delle soluzioni personali di tutto rispetto.
In primis, il ritmo di quest'opera è tutto particolare: è distante dalla follia senza respiro de La casa (che, salvo soltanto i primissimi minuti, è pura azione e follia continua), è distante da Argento, che si ritaglia nell'opera dei punti da dedicare agli omicidi per poi mandare avanti trama e dialoghi nei passaggi tra un omicidio e l'altro, ed è distante dal Carpenter che fa crescere la tensione e il ritmo piano piano che l'opera va avanti. Roth tiene un ritmo bassissimo per tutta la prima parte, stendendo nei primi 45 minuti dialoghi più o meno inutili, lasciando volutamente al di fuori dall'opera ogni tipo di tensione - fatto salvo solo l'incontro con l'eremita infetto - e, nel momento in cui lo spettatore potrebbe pensare che non succederà niente per tutto il film, arriva la prima infetta nel gruppo, e lì la situazione degenera velocissimamente, trascinando chi guarda in un turbinio di caos che compare quasi all'improvviso.
E questa è una caratteristica che vedremo anche in Hostel: primo tempo praticamente senza tensione, secondo tempo che da un momento all'altro alza il ritmo fino all'insostenibile. In entrambi i film la tensione non è creata alla Hitchcock o alla Carpenter (facendo salire piano piano la paura mano mano che la situazione si complica), ma entra all'improvviso nell'opera grazie a una causa scatenante (in Cabin Fever è il primo contagio all'interno del gruppo, in Hostel sarà l'arrivo di Paxton al luogo della mattanza).
Certo, in Cabin Fever manca il gruppo di attori solidi e navigati che poteva avere Carpenter ne La cosa, manca il protagonista trascinante come poteva essere Bruce Campbell ne La casa; in effetti gli attori sono tutti piuttosto scarsi e falliscono nel duro compito di dimostrarsi memorabili o affiatati, ma è chiaro che la resa degli attori non fosse il primo obiettivo di Roth, che si concentra particolarmente su altri tre aspetti: 1) le atmosfere; 2) gli effettacci gore; 3) le reazioni dell'uomo a qualcosa di più grande di lui.
E sul primo punto centra perfettamente il bersaglio da 10 punti: le atmosfere sono perfette, sospese, surreali, sicuramente influenzate dalla mano del produttore esecutivo David Lynch e dalle musiche del fido Badalamenti, che si inseriscono con classe nei punti salienti dell'opera, dando ad alcune scene un'atmosfera fuori dal tempo e allo stesso tempo angosciante; sono delle musiche oscillanti, quasi silenziose ma allo stesso tempo estremamente potenti, che, oltre a sottolineare il grottesco avvicendarsi delle situazioni, danno un po' più di autorialità al prodotto, che a tratti sembra veramente girato dalla mano folle di Lynch (la scena del vicesceriffo che ricorda parecchio il cowboy di Mulholland Drive, la scena in cui i 3 bifolchi danno la caccia a uno dei ragazzi infetti...).
E anche il secondo punto è riuscito in pieno: gli effetti gore sulla carne dei nostri personaggi sono estremamente realistici, tanto vivi e pulsanti quanto espressionisti e grotteschi. E, guardando all'artefice, non stupisce di leggere il nome di quel pazzo di Greg Nicotero, vero genio del trucco e degli effetti speciali. Tutte le scene gore/splatter della seconda parte sono gestite incredibilmente dal lavoro di Nicotero e dalla regia quasi vouyeristica di Roth: un esempio per tutti è la scena della depilazione della gamba ormai riempita di bolle e carne morta, veramente tremenda.
La malattia di Cabin Fever è una malattia silenziosa, che si trasmette con ineluttabile facilità, entra dentro di noi mangiandoci dall'interno e si manifesta all'esterno corrompendo la carne, facendo perdere alle ragazze tutta la loro bellezza da top model e ai ragazzi la loro virilità da giocatori di football, una malattia che colpisce e uccide lentamente come il peggiore dei serial killer.
E la malattia rivela la debolezza umana di fronte alla natura e alle sue calamità, dando adito a Roth di riflettere - non senza punte di sagace ironia - sulla nullità dell'uomo di fronte al destino, oltre che al profondo egoismo che motiva tutte le scelte degli uomini: il ragazzo che, pur scoprendosi infetto, va comunque in città mettendo in pericolo l'umanità; i 3 bifolchi che per preservarsi dalla malattia decidono di uccidere il ragazzo portatore di malattia (il capro espiatorio di manzoniana memoria)...
Roth lavora un po' come Nietzsche: entrambi hanno un martello in mano e distruggono la morale comune, mostrando come la natura umana sia sostanzialmente violenta ed egoista (la chimica della morale), ma se il filosofo suggerisce di tuffarsi nel dionisiaco e raggiungere la propria volontà di potenza superando la propria condizione di uomo, Roth si limita a guardare con distacco e ironia un gruppo di scemi che si fanno fuori a vicenda, ridotti in pratica a un branco di animali (non a caso un altro protagonista è un cane famelico, non troppo differente dagli uomini).
E all'ultimo Roth mette in scena l'inettitudine delle istituzioni e della polizia, in un finale tanto ironico quanto inquietante, che, dopo l'esperienza del Covid, non può non far pensare a quanto sia opportuno ridimensionare la malata concezione dell'uomo furbo e dominatore infallibile, concezione pericolosa e che non ci ha portato altro che guerre e disastri ambientali.
Più che superuomini e volontà di potenza - sembra dirci Roth - serve collaborazione e razionalità, se non ci vogliamo trovare nelle condizioni dei protagonisti di Cabin Fever.
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