Regia di Mary Bronstein vedi scheda film
Per Michael Douglas il giorno di ordinaria follia era uno solo. Per Rose Byrne, in If I Had Legs I’d Kick You, è tutti i giorni. Se mother! di Darren Aronofsky fosse spogliato delle sue velleità più bibliche, e fosse spalmato sulla varietà quotidiana di una protagonista stavolta già madre di una capricciosa bambina di 5 o 6 anni, allora forse avremmo l’impiattamento finale di questa opera seconda che ha già elettrizzato il Sundance e ora irrompe nel concorso della Berlinale 75 come un incubo ossessivo-compulsivo di una madre “inadatta”, “che non sta bene”, “che non trova il suo posto”, una madre che però prima ancora di essere un personaggio è un meccanismo dentro un sistema terroristico di scrittura didascalico come un gigantesco cartellone pubblicitario.
Dimmi chi ti produce e ti dirò che film sei. La A24 ormai lavora di muscolarità esibita, ma qui come altrove ammette troppa grana grossa fino a far inceppare il setaccio. Se ci fosse un piano estetico variegato nelle intenzioni della regista Mary Bronstein, che usa i primi piani come si userebbe una trivellatrice, allora forse il programma della sua tesi sulla pazienza che dovremmo tutti avere con le madri abbandonate sarebbe decisamente più facile da abbracciare. È una tesi che sarebbe giusto, di contro, rendere difficile, ma non complicando programmaticamente ogni situazione del quotidiano fino all’eccesso come se fosse una partita a Shanghai, un artificioso gioco caotico sempre uguale che sortisce l’effetto di un allontanamento assoluto, improduttivo. Tanto che, fuor di meta-ragionamento su eventuali demiurgi narrativi (anche se qualche capriccio fantasioso il film qui e lì lo infila, per non farsi mancare nulla), sembrerebbe quasi che questa “motherhood-exploitation” di tanto commentary woke contemporaneo sortisca l’effetto opposto al desiderato, la maternità come trucco algoritmico di sceneggiatura per incoraggiare l’identificazione generica mentre il cinema diventa un elenco di hashtag la cui ricondivisione pulisce la coscienza a chi preferisce un lamento all’esposizione pratica di un problema.
Un gioco di satira sterile, scritto per rispettare un’idea teorica di spietatezza (attenzione al fuoricampo, ai personaggi mai ripresi) che alla fine non scomoda nessuno, se non involontariamente chi non gradisce che un disagio psicologico così politicamente connotato sia solo un’occasione per raccontare una barzelletta che non fa ridere.
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