Regia di Glauber Rocha vedi scheda film
“Sul litorale di Bahia vivono i pescatori neri di “xareu”, discendenti degli schiavi africani. Conservano i culti degli africani. Questo popolo è dominato da un misticismo tragico e fatalista. Accetta analfabetismo, miseria e sfruttamento con la passività tipica di chi attende il regno di Dio. “Yemangiá” è la regina delle acque, “la vecchia madre di Irecé”. Ama, protegge e punisce i pescatori. “Barravento” è l’ora della violenza, quando terra e mare si trasformano. In amore, nella vita e nella società avvengono cambiamenti improvvisi. I personaggi di questo film non hanno alcuna relazione con persone realmente esistite. Ma i fatti sono reali”.
Questa è la didascalia che precede l’inizio del film, occorre aggiungere che ci troviamo sulla spiaggia di Buraquinho, a pochi chilometri da Itapoau, Bahia.
In questo contesto sociale e culturale Firmino (Antonio Pitanga) veste i panni di chi ha viaggiato e fatto conoscenza di altre esperienze di vita. Tornato a Bahia, nel suo paese d’origine, cerca di spronare i pescatori locali a ribellarsi contro il padrone venuto dalla città (Lidio Silva) che si arricchisce sfruttando il loro lavoro in mare. Ma si scontra con le leggi eterne della superstizione che impedisce alla comunità indigena di affrancarsi da una concezione fatalistica dell’esistenza. Aruã (Aldo Teixeira) è il capo villaggio, considerato un protetto del mare. È lui che potrebbe iniziare una lenta ma inesorabile presa di coscienza della sua condizione di lavoratore sfruttato.
“Barravento” apre la carriera cinematografica di Glauber Rocha, il padre del Cinema Novo brasiliano, uno dei primi autori a dare una voce narrativa ai bisogni calpestati del cosiddetto “terzo mondo. E lo ha fatto cavalcando “l’onda lunga” delle avanguardie cinematografiche coeve, innestando dentro ad un quadro etnografico riconoscibile, perché saldamente conservativo, un grido di ribellione che ha guardato al cinema e al marxismo come fondamentali puntelli ideologici. In “Barravento” c’è già tutto della sua poetica, la spinta all’emancipazione delle masse come la descrizione della povertà, l’occhio vigile sul suo popolo come l’adesione convinta alle “onde” cinematografiche. Detto altrimenti, “Barravento” è certamente un film legato al contingente e figlio del suo tempo, ma con una capacità di affascinare ancora che è direttamente proporzionale alla volontà di chi guarda di immedesimarsi con quel mondo e quel particolare punto di vista.
Glauber Rocha sceglie un timbro registico dominante, facendo della messinscena il palcoscenico deputato per lo scontro “titanico” tra i bisogni materiali cui deve tendere il popolo per migliorare la sua condizione esistenziale e le leggi ancestrali che ne regolano la vita quotidiana. Le immagini seguono il ritmo delle canzoni brasiliane, vi si adeguano come per catturarne l’essenza più profonda, come per farne un’entità dinamica che funge da colonna sonora imperitura per un intero territorio. Si balla e si canta come per esorcizzare la miseria più stringente. Ma si rimane imprigionati in un mondo retto sulla superstizione e sulla fatalistica accettazione del proprio destino. Si rimane schiavi delle gentili concessioni del potente di turno. C’è anche spazio per il sopraggiungere del sentimento amoroso, ma anche questo deve sottostare alle leggi della tradizione, anche i corpi che pulsano passione hanno un’autonomia condizionata dallo spazio a dal tempo. Ed è qui che interviene la regia di Glauber Rocha, che descrive rispettosamente la tradizione per mettere in risalto la necessità di emanciparsene, che indugia spesso sull’immensità del mare come per mostrare a quella comunità di pescatori che esiste un mondo di cose da scoprire oltre la forza di persuasione del loro retaggio culturale. Ad incarnare questa tensione morale è Firmino, è lui che intende costruire una coscienza di classe ragionando “marxianamente” sul contrasto dialettico tra i pescatori che sopravvivono a stento con il lavoro che fanno e il padrone che si arricchisce con il lavoro che sfrutta. Per giungere allo scopo, Firmino è disposto anche a giocare sporco pur di mettere gli amici pescatori nella necessità di dover reagire. Tende a colpirli nel bene che hanno più caro per il loro lavoro in mare, in modo che da soli possono rendersi conto di quanto è sottile il limite che li rende dipendenti della disperazione più nera. Aruã, invece, è il capo villaggio, e come tale è avvertito come una persona protetta, quasi come un uomo superiore capace di dominare il mare. Lui incarna la memoria storica della sua comunità, il suo diritto ad esistere con dignità e a resistere con fierezza. Una memoria che, gradualmente, senza disperdere il necessario del suo valore culturale, si trasforma in coscienza critica che inizia a riflettere sulla sua condizione di miserabile della terra. Firmino e Aruã sono due facce di una stessa medaglia, destinati ad incontrarsi nella comune lotta contro la povertà. Rocha rappresenta in chiave metaforica l’inevitabilità di questo incontro spingendo i due allo scontro risolutivo. Firmino e Aruã si mettono a litigare, i loro corpi si muovono come per seguire delle traiettorie già stabilite, come per dare forma e sostanza ad una sorta di danza propiziatoria. Ad avere la peggio è il capo villaggio, che smette i panni “mitici” del dominatore del mare per indossare quelli dell’uomo in lotta per affrancare se gli altri dalla condizione di miseria.
Un film e un cinema che sin dall’inizio sapevano dove volevano andare.
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