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La città proibita

Regia di Gabriele Mainetti vedi scheda film

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La recensione su La città proibita

di giurista81
8 stelle

 

Gabriele Mainetti si conferma tra i migliori registi di genere nel contesto del cinema italiano pur senza rinunciare all'anima trasteverina e coatta, vero e proprio marchio di fabbrica dei suoi film e probabile punto debole in un'ottica di esportazione. Dopo Lo Chiamavano Jeeg Robot (2015) e Freaks Out (2021), il regista insiste sul cammino fatto di contaminazioni in salsa romana. Prodotto da un lotto di "nuovi" finanziatori, tra cui i produttori della serie L'Amica Geniale e del film interpretato da Paola Cortellesi C'è Ancora Domani (2023), il "nostro" capitalizza il budget di diciassette milioni di euro (record per Mainetti) con la probabile intenzione di esportare la pellicola all'estero. Al cinema dei supereroi e a quello bellico/fantastico, subentra nientemeno che il gongfu (con tanto di omaggi a Bruce Lee e Jackie Chan) ovvero quel cinema d'azione, tipicamente cinese, salito agli onori delle cronache negli anni '70 in virtù dei successi di Bruce Lee.

La Città Proibita è un rarissimo esempio di cinema marziale prodotto in Europa giostrato sul kung-fu. In Italia, negli anni '70, si era tentato di sfruttare la moda del periodo dando luogo a esperimenti poco convinti e sovente virati al farsesco, rappresentati da film come Il Mio Nome è Shangai Joe (1973) di Mario Caiano, Crash! Che Botte... Strippo Strappo Stroppio (1973) di Bitto Albertini e Storia di Karatè, Pugni e Fagioli (1973) di Tonino Ricci. Pellicole, come è facile intuire, uscite lo stesso anno in cui conquistava i botteghini I Tre dell'Operazione Drago (1973), ultima pellicola interpretata da Bruce Lee prima della prematura dipartita. Una parentesi breve e veloce, commistionata ad altri generi (soprattutto il western) e solo in parte ripresa negli anni ottanta con la serie Il Ragazzo dal Kimono d'Oro (1987), a sua volta innescato dal film americano Karate Kid (1984).

A quasi quarant'anni di distanza, Mainetti ripropone la scommessa, guardando sia a Quentin Tarantino (il riferimento va a Kill Bill e al ruolo forte di una donna marziale) sia al nostro cinema noir (richiami a Romanzo Criminale e Gomorra, non a caso tra gli sceneggiatori abbiamo Stefano Bises, tra le firme di Gomorra La Serie e Adagio) con concessioni alla comicità e ai sentimenti amorosi e senza perdere di mira l'amore per la musica italiana (come in Lo Chiamavano Jeeg Robot sono continuamente tributati grandi classici della nostra musica popolare) e le battute smargiasse. Ne viene fuori un revenge movie dal ritmo sostenuto (soprattutto nei primi due terzi di film), con fotografia e regia ai livelli internazionali. Paradossalmente funziona meglio la parte action, con attori cinesi in grande spolvero, ivi compresi la protagonista Yaxi Liu (stuntwoman pescata a Hong Kong) e il villain Chunyu Shanshan. La componente italica difatti è altamente tamarra e coatta, con Marco Giallini sopra le righe, Enrico Borello tenerone e frescone, Sabrina Ferilli che non ti attenderesti mai di trovare in un film del genere e Zingaretti che si limita a un cammeo. Ne viene fuori un film action dai toni gangster composto da due anime: l'internazionale che guarda a Hollywood (strepitoso il prologo) e l'italica fortemente legata alla commedia nostrana sebbene calata in un contesto altamente drammatico. La sensazione è che Mainetti voglia dimostrare di saper girare un film sui canoni classici di Hollywood ma, al contempo, decida di non abbandonare le proprie origini pur sapendo di "inquinare" il prodotto finale. L'anima italiana infatti è evidente e non viene schiacciata dalla componente cinese, in un equilibrio che potrebbe quantificare nel 50%.

La sceneggiatura, che pure lascia un ottimo messaggio anti-razzista (tra cinesi e italiani non si sa chi siano i peggiori sfruttatori), non è priva di difetti, sebbene piazzi un inatteso colpo di scena finale con tanto di momento alla Mario Merola. Si ravvedono diversi vuoti narrativi (ne è un esempio il comportamento del protagonista al ritrovamento del cadavere del padre), ma anche soluzioni inverosimili alla Rambo (la protagonista mena tutti e recupera da un'infinità di ferite e botte nell'arco di qualche giorno) e incongruenze nella gestione dei personaggi (protagonista incazzosa, poi fanciullesca, di nuovo incazzosa, quindi sentimentale etc). A esempio avrei tagliato tutta la parte in cui Borello porta a spasso per Roma la protagonista.

Perfetto sul versante tecnico. Mainetti è scatenato alla regia, tra carellate, rapidi movimenti di macchina e messa in scena dei combattimenti in vecchio stile cinese (niente bombardamento di montaggio per coprire l'inefficenza degli attori come avviene spesso a Hollywood). Memorabile omaggio a Dalla Cina con Furore con la protagonista accerchiata dai ceffi cinesi e costretta ad affrontarli senza alcun aiuto. Cazzotti, calci e armi bianche, con impiego di inusuali armi improprie (fiori compresi) caratterizzano gli scontri. Visivamente spettacolare, soprattutto per un montaggio eccezionale che esalta la brillante regia. Da notare alla fotografia la presenza di Paolo Carnera, già vincitore di due Nastro d'Argento (Adagio e Favolacce) e di un David di Donatello (Io Capitano). Buone anche le scenografie.

Al netto dei difetti, resta un prodotto notevole, divertente e capace di intrattenere dalla prima all'ultima sequenza. Riceverà sicuri riscontri ai David di Donatello e ai Nastro d'Argento.

Da vedere al cinema e da sovvenzionare per stimolare la realizzazione di prodotti similari. Bravo Mainetti!

 

 

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