Regia di Gabriele Mainetti vedi scheda film
CIAK MI GIRANO LE CRITICHE DI DIOMEDE917: LA CITTÀ PROIBITA
Se non ci fosse Gabriele Mainetti bisognerebbe inventarlo.
Il regista che trasforma storie potenzialmente di serie B in cinema d’autore di serie A, quasi come Quentin Tarantino (lo so che adesso arriva Dio e mi fulmina).
E soprattutto le incastra in zone di Roma che neanche ti immagini aggiungendo un pizzico di anima che solo i poeti della settima arte hanno nel proprio codice genetico.
E così dopo i supereroi di Tor Bella Monaca che la prima cosa che fanno con i superpoteri è smurare un bancomat e gli X-Men mostruosi del ghetto ebraico che combattono il nazismo adesso il nostro Gabriele ci porta dentro il multietnico quartiere Esquilino, un crogiuolo di razze e di fiji de na mignotta come direbbe Claudio Amendola.
La Città Proibita, dietro il classico revenge movie alla Bruce Lee, nasconde molto di più.
In 135 minuti divisi in tre atti ben strutturati ci racconta il decadimento dell’Italia attraverso la fascistizzazione della sua Capitale, vecchi criminali che si rispettano ma che non accettano il cambiamento geologico della delinquenza risultando dei dinosauri in attesa dell’estinzione, figli che subiscono e si ribellano alle scelte dei padri, una storia d’amore impossibile ai tempi del traduttore Google, Ramen contro Amatriciana ma soprattutto tantissime botte ottimamente coreografate.
La Città Proibita vede protagonista Mei, una ragazza che ha passato tutta la vita a nascondersi per colpa della legge del figlio unico cinese, che arriva a Roma alla ricerca della sorella maggiore arrivata a Roma per fare la prostituta clandestina per conto di Mr Wang.
Ma la storia della sorella si incrocia con quella di Alfredo, un ristoratore di 65 anni che perde la testa per lei abbandonando moglie, figlio e ristorante.
Com’era prevedibile questo amore osteggiato finisce nel sangue e Mei porta nella sua vendetta anche Marcello, il figlio di Alfredo che ha vissuto pure lui tutta la vita nascosto dentro la cucina del ristorante per pagare i debiti lasciati dal padre.
La prima parte è un John Wick al femminile dove ogni combattimento è una danza da vedere a occhi apertissimi.
Dopo un caleidoscopio di botte e sangue, la giostra si interrompe bruscamente per presentarci i vari protagonisti. Soprattutto la loro poraccitudine e le loro debolezze. Tra questi spicca un grandissimo Marco Giallini (David di Donatello da consegnare immediatamente) che interpreta Annibale. Cravattaro amico di famiglia del Ristorante Alfredo che vorrebbe fermare l’avanzata degli extracomunitari nel quartiere sfruttandoli. Tratta Marcello come fosse figlio suo ed è segretamente innamorato di Lorena, una Sabrina Ferilli più fatalona che mai.
E in questo mondo fatto di violenza e diffidenza nasce l’amore tra questi due mondi lontani che scoprono quanto è bella la vita nonostante la morte che li circonda. Bellissima la gita in motorino di notte che fa scoprire quanto sia magica la Roma Capoccia. Una Roma che nemmeno Marcello pensava potesse esistere.
Per poi arrivare allo stupendo e crepuscolare finale che, come un duello alla Sergio Leone, metterà di fronte il vecchio al nuovo, la tradizione e l’innovazione. Toccante il personaggio di Mr. Wang che deve travestirsi e vedere di nascosto l’ormai integratissimo figlio Trapper ribelle chiamato Maggio. Una debolezza che risulterà fatale per la vendetta legittima di Mei.
Poetico il faccia a faccia sotto i portici tra Marcello e Annibale che ci fa capire l’importanza intrinseca dell’amatriciana nella nostra vita.
Un mantra che ci caratterizza come la filosofia del Kung Fu per i cinesi. Ben oltre del “Metti la cera e togli la cera” del maestro Myagi.
Grazie a Gabriele Mainetti, l’Italia ha quel regista che può renderla orgogliosa nel mondo anche con i film di genere.
Voto 8
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