Regia di Sofia Coppola vedi scheda film
Dopo Il giardino delle vergini suicide, in cui Sofia Coppola decide di raccontarci la difficile età dell’adolescenza, con Lost in Translation sembra voler fare un balzo in avanti e ci mostra, a suo modo, l’amore. Attraverso lo sguardo maturo e disilluso di Bob Harris, attore insoddisfatto, e quello giovane e affamato di Charlotte, moglie di un fotografo in carriera che la trascura per il suo lavoro.
L’amore raccontato dalla Coppola è più che altro sussurrato, sempre sullo sfondo, protagonista assoluto ma quasi volutamente tenuto in una bolla che aleggia per tutta la durata della pellicola senza mai scoppiare. Tra i due protagonisti si svolgono sguardi d’intesa, abbracci, frasi all’orecchio e sono più le cose non dette e non fatte di ciò che poi effettivamente si compie.
Senza dubbio la sua visione risulta cortese e suo modo affascinante, così come il suo modo di mostrarci Tokyo tra i suoi colori e le sue luci al neon, la sua vita caotica con cui contrasta la tranquillità disturbante delle vuote camere d’hotel in cui i due alloggiano.
Personalmente però non mi sono sentita mai veramente coinvolta dal racconto che, proprio per la sua impostazione, risulta a tratti scomposto e, per quanto lineare, in diversi punti annoia. Consapevole delle mie alte aspettative a proposito, avendo adorato l’esordio della regista, ammetto che forse il mio aspro giudizio è dettato in parte anche da questo ma è indubbio che la pellicola pecca di dialoghi o di quel sentimentalismo tale da renderlo empatico.
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