Regia di Andrej Zvyagintsev vedi scheda film
Il viaggio comincia nelle terre settentrionali della Russia, desolate, buie e fredde. La sensazione è quella di essere soli al mondo, soli anche nella sala, soli a cominciare un cammino di cui è difficile ipotizzare un ritorno. Una specie di premessa dell’opera prima del regista russo, Andrej Zvjagintsev, Leone d’Oro a Venezia 2003, candidato all’Oscar come miglior film straniero per il bellissimo Il ritorno.
In un certo senso, la storia potrebbe anche non essere raccontata, proprio come sceglie di fare il regista, anche se in diverso modo: utilizzando il ‘metodo del non detto’, del dire attraverso le diverse inquadrature e sequenze di rimando. Andrey (Vladimir Garin, drammaticamente scomparso al termine delle riprese) e Ivan, due fratelli adolescenti, vivono al limite dell’alienazione spazio-temporale, nell’assenza di presenze altre. Tutto ciò per un buon Tempo. I russi hanno una concezione del Tempo mistica, di hegeliana memoria: “il continuo Divenire”. Infatti, a sconvolgere la vita dei due fratelli interviene la presenza di un uomo mai conosciuto, immaginato più che ricordato, attraverso una foto sbiadita, il Padre.
Sarebbe vano ricordare cosa hanno rappresentato i padri in Russia, dall’abdicazione dell’ultimo zar all’ultimo ‘padre’ che la storia ricordi in quella terra, Michael Gorbaciov. Perché del dopo non c’è immaginazione o ricordo che possa reggere, ma solo una serie d’impietosi interrogativi, gli stessi che si pongono i due fratelli: “E’ davvero il padre, quest’uomo un po’ dolce e un po’ burbero? E perché sarebbe arrivato solo ora?”. Alcuna risposta sarà offerta ai due figli, neanche dall’inutile presenza della madre, che non proferisce parola. In loro rimarrà viva l’esigenza di trovare anche uno spazio e un tempo in cui ammettere la presenza del padre. E’ la prima volta che lo vedono. Bellissima la sequenza in cui i ragazzi scoprono, spiano e annusano l’uomo che dorme, lasciando nello spettatore una serie di interrogativi. A risolverli, però, non ci sarà nessuno, né prima-durante-dopo il viaggio in cui il padre spinge i figli, in una sorta di percorso di ricerca, attraverso la bellezza selvaggia dei boschi, dei laghi e paesaggi ancora incontaminati dalla presenza umana, i cui suoni e i lunghi silenzi lasciano attoniti e stordiscono chi viaggia. La confusione delle idee.
Intanto, il proseguimento del cammino (la Storia: se si pensa a quella russa…) diventa sempre più pericoloso, divide, fa scontrare, provoca necessariamente cambiamenti. Per Andrey e Ivan risulterà la scoperta del mondo, della disillusione di una vita vista al binocolo prima e alla macchina fotografica, perché si imprima nella memoria.
Il primo figlio si legherà sempre di più al padre, mentre Ivan resterà sospettoso e ostile fino alla fine. Lo spettatore è in contraddizione, che vuol capirci chiaro, avvinto da forze controverse e contraddittorie, aiutato in tutto ciò dal lento processo di allontanamento della macchina da presa dai corpi, che nei primi minuti aveva quasi aggredito e sui cui indugiava. Restano soltanto un’ansia penetrante, a tratti soffocante, e una voglia di liberazione immaginifica. Anche perché Il ritorno è girato con estrema maestria e infinita attenzione per ogni minimo particolare, alla maniera di Tarkovskij, il primo Polanski e Antonioni, registi che lo stesso regista russo ammette di amare, “ insieme a Valerio Zurlini de Il deserto dei tartari, al Visconti di Rocco e i suoi fratelli. E poi amo moltissimi i film in bianco e nero di Fellini; con i film a colori ho un rapporto un po’ più complesso”.
Il finale, con lo scontro di Ivan e il padre, di un figlio che fugge e del padre che cerca di raggiungerlo, ma accidentalmente cade e muore, non lasciano nello spettatore alcun sentimento di figliolanza o di perdono. Infatti, ai due fratelli non rimarrà altro che ricomporre il corpo del padre e adagiarlo su una barca (fa pensare molto al Masaccio della Cappella Brancacci). Il risveglio e la barca che prende il largo, inabissandosi nelle acque del lago, porta con sé, affogandole, ogni possibilità di ricordo. La storia dei padri è finita da un bel pezzo, nessun ritorno potrà ridestare nell’animo degli uomini la speranza di ‘cose’ perdute. Noi figli, orfani di un tempo che fu.
Giancarlo Visitilli
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