Regia di Andrej Zvyagintsev vedi scheda film
Opera prima del trentanovenne Andrei Zvjagintsev, “Il ritorno” fu alla base di numerose polemiche quando venne premiato con il Leone d’oro alla Mostra del cinema di Venezia. Infatti, i più ritenevano che l’ambito riconoscimento dovesse andare a “Buongiorno notte” di Marco Bellocchio, mentre altri avanzavano riserve sul “formalismo” e sull’eccessiva aura di “film da festival” che secondo loro grondavano dalle immagini del fino ad allora sconosciuto cineasta russo. In realtà, “Il ritorno” rappresenta un esordio di sorprendente maturità e si difende bene rispetto al film di Bellocchio; inoltre, inserendosi in una corrente tipicamente russa di racconto allegorico-simbolico con punte mistiche che al cinema ha avuto il suo massimo rappresentante in Andrei Tarkovskij, tocca temi universali come quello dell’obbedienza all’autorità paterna, del passaggio all’età adulta e delle difficoltà anche estreme che può comportare questo processo di maturazione. La storia è quella di due fratelli adolescenti che, dopo un’assenza di dodici anni, si trovano nuovamente di fronte a un padre che non avevano mai conosciuto e che, senza fornire spiegazioni, li conduce con se in un viaggio verso un’isola disabitata che assume caratteri iniziatici e dove esplodono una serie di tensioni e scontri soprattutto fra il più piccolo dei due figli e il “padre prodigo”. La vicenda rimane costantemente avvolta in un alone di mistero, anche quando si arriva ad un inevitabile epilogo tragico, perché il regista si rifiuta deliberatamente di spiegare tutto e di fornire risposte a molte domande che possono sorgere alla mente dello spettatore. Ciò che si impone con maggiore evidenza è il conflitto fra il padre e i figli, fra l’obbedienza passiva e la volontà di trasgressione, fra il potere e la sua degenerazione: infatti, a partire da quel che lascia intravedere la trama risulta chiaro che il regista riflette su tematiche dalle ascendenze bibliche e mitologiche, fortemente radicate nello spirito russo e rappresentate in forme che, pur tendendo all’astrazione, mantengono una loro riconoscibilità e anche un aggancio a una realtà che sembra sempre sull’orlo dell’autoannientamento. Inoltre, la straordinaria bellezza compositiva di molte inquadrature non risulta mai scollata dai contenuti che in esse si palesano, rendendo fuorviante l’accusa di formalismo.
Voto 8/10
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