Regia di Michael Winterbottom vedi scheda film
Winterbottom, che continua a essere selezionato con imperterrita testardaggine dai Festival più importanti del mondo, si crede tanto bravo, perché si offre come la firma per le quattro stagioni (che poi ce l’abbia, una firma, è ancora tutto da dimostrare: ma presto molta critica ci andrà a nozze), in grado di passare dal mélo alla commedia, dal film corale al western, fino alla sci-fi. Come in questo caso, una storia a metà tra Gattaca e Minority Report di metropoli “liofilizzate”, mercato nero di tessere identificative e copertura a tempo determinato, globalizzazione culturale e linguistica, sesso e amore come antidoti alla standardizzazione, apparati burocratici che cancellano la mente dell’uomo e lo rimettono, letteralmente, sulla strada. Ma è un pastrocchio traslucido, di una noia pura come l’alcol a 100°, confuso e perfino ridicolo (la beduina Morton nel finale fa sghignazzare). I panorami sono tanti, le chiacchiere pure. L’idea dell’amore come fuga (anche fisica) dal mondo ormai serializzato non è certo nuova, ma pur sempre un buon trampolino per la fantascienza: il problema, qui, è che siamo nella maniera arty del genere, già (dis)fatta e sepolta. Unica consolazione: la colonna sonora, splendida, di The Free Association.
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