Regia di Francesco Rosi vedi scheda film
Per parlare oggettivamente di questo film credo che sia innanzitutto necessaria una mediazione culturale che ci consenta di ricollocare la pellicola nella giusta posizione della filmografia del regista, tenendo analogamente conto della particolare situazione politico-sociale della Spagna di quegli anni, una nazione sfiancata da decenni di dittatura Franchista e ancora pesantemente sottomessa sotto il peso del gioco di quel dominio oscurantista e reazionario. Cercherò di fare questo sforzo: "Il momento della verità" risultò, alla sua uscita, una pellicola che suscitava molte aspettative e dalla quale ci si aspettava grandi cose, soprattutto in considerazione della evoluzione costante e sempre stimolante della filmografia del Regista che aveva già dato alla luce quel capolavoro assoluto di "Salvatore Giuliano" e che sembrava destinato per questo a prove analogamente superlative. Le aspettative erano molteplici anche in funzione del soggetto scelto che trovava Rosi per la prima volta impegnato in situazioni e contrasti non legati a problematiche strettamente connesse con l'Italia e gli italiani. Le precedenti opere del regista si erano infatti sviluppate in un contesto ben preciso (il sud della penisola, che ne era rimasta la matrice profonda anche quando le ambientazioni erano più "internazionali") e tendevano a sottolineare aspetti contraddittori della vita di quelle popolazioni (contadini, ma anche mafiosi e camorristi), dandoci di riflesso l'immagine di un paese ancora ben lontano dall'aver raggiunto quel presunto grado di benessere generale e quella unità nazionale (di nuovo adesso in disfacimento programmato) di cui tanto si parlava in quegli anni, spesso a sproposito. In ultima analisi quindi, "Il momento della verità" doveva servire come definitiva verifica critica per valutare le reali capacità del regista (il bilancio complessivo sarebbe stato possibile farlo molto tempo più tardi) che si era imposto clamorosamente all'attenzione generale nel lontano 1958 con "La sfida" (film che solo una giuria timorosa e ossequiente non ebbe il coraggio di premiare col massimo riconoscimento alla Mostra di Venezia di quell'anno preferendo l'esotismo insipido de "L'uomo del Risciò). Non che "La sfida" fosse un capolavoro assoluto - tutt'altro: i difetti e le concessioni erano molteplici e piuttosto evidenti, ma era l'opera 'forte' e sentita di un esordiente talentoso, un film stimolante e coraggioso, impegnato socialmente e alla ricerca di un linguaggio autonomo, totalmente svincolato dalle precedenti esperienze (neorealiste e post-neorealiste), anche se realizzato con tecnica acerba e spesso carente. La nobiltà dei temi e l'onestà della fattura sopravanzavano comunque di gran lunga le imperfezioni dell'opera e facevano ben sperare in successivi, positivi sviluppi delle tematiche e del linguaggio, confermandosi una proposta seria e corposa degna senz'altro della massima attenzione da parte sia della critica che del pubblico. Le attese erano state in parte ridimensionate dal semi-infortunio del successivo "I Magliari", film ambientato in una Little Italy germanica e interpretato da un manierato Alberto Sordi. Infatti, pur se non mancavano momenti e situazioni felici e intelligentemente risolte, l'opera nel suo complesso risultava deludente. Sorprendeva soprattutto constatare che il regista, alla sua seconda prova, non aveva saputo dare sufficiente rilievo psicologico ai suoi personaggi, specialmente quelli minori, che spesso non riuscivano ad andare oltre la 'macchietta'. L'opera seconda è quasi sempre deludente (è questa una verità largamente consolidata e confermata dai fatti) e non furono pochi i critici che, temendo di aver preso un nuovo abbaglio (vedasi per tutti il caso Maselli e de "Gli sbandati") ritirarono con fragore i remi in barca pubblicando critiche più negative di quanto il film effettivamente meritasse. Ma a calmare le acque e a riportare le cose nella giusta prospettiva, arrivò poi lo splendido "Salvatore Giulinao", a tutt'oggi la più matura e completa, insuperata opera di Rosi. Nemmeno il successivo "Le mani sulla città" pur confermandosi opera coraggiosa e pregevole, non riuscì a raggiungere i vertici di "Salvatore Giulinano" (esperienza che si è dimostrata davvero irripetibile nella densa e ondivaga filmografia del regista) anche se, attraverso una operazione molto "didascalica" quasi brechtinana riusciva in qualche modo a al quasi-piano dell'arte argomenti ritenuti ostici - quasi dei tabù - come la speculazione edilizia e la compromissione fra politica ed affari (per lo meno trattati nella prospettiva di denucia oggettiva scelta da Rosi). Un film questo che tutto sommato finiva per risultare eccessivamente schematizzato (particolarmente deficitario lo scavo psicologico del personaggio del comunista, troppo e soltanto "positivo"). Ed è a questo punto dell'evoluzione linguistica del regista, che arriva "Il momento della verità". Saltava subito agli occhi dall'analisi della storia, l'analogia "ideologica" fra "Salvatore Giuliano" e questo film: tutti e due rappresentavano il ritratto di un uomo, il famoso e discusso bandito di Montelepre nel primo, un torero qualunque nel secondo. In entrambi si cercava di demistificare un personaggio 'tipo' offrendo nel contempo un ritratto reale della società che lo aveva generato e all'interno della quale si muoveva il "mito". I propositi erano più che nobili: darci una faccia vera, umana, della Spagna di quegli anni, soffocata da un regime che impediva ogni libertà individuale e per questo costratta, anche a causa di un clericalismo esasperato, a sfogare i propri istinti frustrati in espressioni che rasentavano il sadismo (la corrida). Che cosa rappresentava (e continua a rappresentare purtroppo anche adesso, nonostante il nuovo contesto politico della nazione) questo rito barbarico e sanguinoso per gli spagnoli? Questa domanda era alla base del film di Rosi che intendeva in qualche modo demistificare l'evento spogliandolo completamente delle componenti romantiche gonfie di cascami decadenti, fomentate da tanti esempi di cattiva letteratura e da molti films turistico-avventurosi che lo hanno da sempre alimentato. Il film voleva essere, in definitiva, la storia individuale e collettiva di un popolo ridotto alla disperazione, rivisitata attraverso la rappresentazione reale di una forma di aberrazione generata da una prassi consolidata che trae origini in un fenomeno di costume profondamente radicato all'interno di tradizioni e riti ancestrali, quasi tribali, di quella pseoudo civiltà involuta e falsamente misticheggiante. Illuminanti a tal proposito sono le prime scene del film, che ci mostrano una nitida visione della Spagna bigotta e anodina attraverso il fasto delle rituali processioni della settimana santa. Di un allucinante verismo risulta il grosso baldacchino sormontato da immagini sacre e candele che a malapena esce dalla porta della chiesa, sorretto da centinaia di persone delle quali si intravedono solo i piedi, che avanzano a ritmo lento e strisciante, e rendono la visione dell'insieme simile a quella di un mostruoso animale strisciante e ambiguo. L'indagine si approfondisce quando ci viene mostrato Miguelin, un ragazzo come tanti, figlio di contadini costretti a coltivare i campi con sistemi inadeguati e fuori tempo, in netto contrasto con la razionalità già raggiunta dall'agricoltura dei paesi liberi, o comunque con un governo definito democratico. Siamo di fronte al ritratto di un giovane non "contaminato" dal sistema, che ancora non ha preso piena coscienza delle contraddizioni e delle logiche perverse del mondo che lo circonda, ma che avverte il disagio di vivere in quella società così degenerata; un giovane ancora pieno di speranze, anche se non completamente delineate, che si identificano principalmente nella volontà di ritagliarsi un avvenire migliore. E' per raggiungere questo obiettivo che lascia la casa, la famiglia e gli affetti per andare in città a lavorare, ed è attraverso questo processo che avviene gradualmente la maturazione, nell'accorgersi come, all'atto pratico, tutto sia più complicato e meno lineare, e nel cercare di spiegarsi le ragioni che motivano queste insormontabili difficoltà, con la conseguente acquisizione di una coscienza non più di carattere esclusivamente religioso-cattolica, ma anche sociale e morale che lo pone a un certo punto al di sopra degli eventi. Le difficoltà da affrontare sono enormi: vive come può a costo di notevoli sacrifici,ma non cede, non si lascia scoraggiare, accontentandosi di consumare pasti frettolosi alle mense operaie e alloggiando in una specie di dormitorio pubblico, in mezzo al sudiciume e alla disorganizzazione pur di "resistere". Ci troviamo di fronte ad alcune delle scene più crude di tutto il film: pur di lavorare, pur di non rinuciare al sogno e tornare a casa sconfitto, Miguelin si "contamina", entra nel giro dello sfruttamento, accetta di lasciare una parte del salario guadagnato a chi gli procura il lavoro (niente è cambiato!!! nè il tempo nel mondo ha risolto il problema. Basta guardare all'Italia degli immigrati dei giorni nostri e il parallelo è inevitabile). Le immagini che il film mostra sottolineano abilmente la psicologia di questo mondo putrescente, l'incombente clima fascista che impedisce reazioni e permette lo sfruttamento indisturbato e sistematico della forza lavoro, perfettamente inquadrato nella cornice della nella squallida miseria della periferia della città, ma (e qui sta a mio avviso il primo grosso difetto dell'opera) il regista sembra non accorgersi della forza che ha saputo imprimere alle immagini, e calca la mano, per chiarire senza ombra di dubbio il suo discorso, utilizzando uno script didascalico con dialoghio forzati e artefatti che lasciano nello spettatore una sensazione palpabile di disagio. La soluzione dei problemi del ragazzo, si ha apparentemente quando decide di intraprendere la carriera di torero (più che di soluzione, si può parlare di adattamento o anche, in definitiva, di una completa accettazione passiva delle logiche di quella particolare società, con un comportamento diametralmente opposto a quello assunto da Salvatore >Giuliano nel film precedentemente citato). E Rosi ci racconta gli esordi, gli sviluppi della carriera di Miguelin, fino al definitivo trionfo a Madrid nella Plaza de Toros, alla affermazione e alla "rinascita" sociale pagata a caro prezzo. Ed è a questo punto che il discorso da collettivo che intendeva coinvolgere l'intera ccollettività circostante, pur con la proiezione in primo piano di un singolo personaggio emblematico, ha una imprevedibile sterzata verso il "PRIVATO". La Spagna quindi continua a far da cornice all'intera vicenda, ma perde la sua forza dialettica, limitandosi a rappresentare l'involucro, l'ambientazione necessaria per lo sviluppo drammaturgico della storia ed arrivare alla catarsi finale e gli spagnoli diventano una folla sempre più anonima e lontana, che si limita a far sentire la sua presenza folcloristica fine a se stessa. Miguelin ce l'ha fatta. Ma tutti gli altri? Tutti quelli che non hanno la "stoffa" del torero (o più semplicisticamente non possiedono la temerarietà e l'incoscienza per affrotnare il rischio?). Il film non ci racconta la loro sorte, non ci rende edotti delle degradate prospettive di vita degli sconfitti: si limita a mostrarci un pubblico urlante che applaude o fischia preso dalla frenesia del sangue e della morte, ma senza anima e spessore. E anche il disperato gesto compiuto da alcuni giovani che entrano nell'arena per affrontare il toro, privi di qualsiasi difesa, che rischiano la vita per essre "notati" e "riscattati" in fondo non va al di là di una felice, ma episodica e poco significativa intuizione "a latere". E' l'aspetto della corrida come "rituale" fenomeno di massa a non essere approfondito abbastanza e come sarebbe stato lecito aspettarsi dopo la premessa iniziale e il curriculun professionale di Rosi. Comunque prese al di fuori del contesto "sociologico", le scene girate nell'arena sono fra le più belle che si siano mai viste sull'argomento (superate solo dall'Almodovar di Parla con lei): ritmo incalzante e calibrato, cinepresa mobile e avvolgente capace di creare reale e costante "suspense", con una fotografia cromaticamente calligrafica. Probabilmente è stata proprio questa bellezza intrinseca a prendere la mano a Rosi, a tradirlo in fase di realizzazione, riducendo le proporzioni iniziali del discorso, troppo affascinato dalla "forma" e per questo "colpevole di molte evitabilissime scivolate nel luogo comune (come l'orribile scena d'amore con la turista-attrice, uno dei punti più deboli e scontati dell'opera). Limitatamente all'evoluzione (o involuzione) del personaggio comunque, anche la seconda parte del film ha pagine di soffuso lirismo e momenti in cui, nuovamente, traspare la progettualità iniziale: il ritorno a casa di Miguelin nel periodo della trebbiatura, con la fuoriserie che sfila davanti a immagini di vita quasi antidiluviane, è a questo proposito illuminante, uno dei momenti più poetici e toccanti e allo stesso tempo terribile atto di denuncia, dell'intera pellicola. Purtroppo il rigore, mantenuto più o meno costantemente per l'intero arco del film, pur con gli evidenti limiti sopra evidenziati, viene completamente a decadere nel finale: arrivati alla disingegrazione quasi totale del personaggio, il rappresentare realmente ciò che era ormai intuibile, non costituisce altro che una sottolineatura inutile e dannosa, al servizio del melodramma tipo "Sangue e Arena", un voler fare della retorica, cosa questa che non poteva che stupire in quel momento specifico della sua carriera, in un regista come Rosi (purtroppo poi ci saremmo dovuti confrontare con scivolate ben più disastrose e destabilizzanti!!!!)
Non ci sono commenti.
Ultimi commenti Segui questa conversazione
Commenta