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Rosenstrasse

Regia di Margarethe Von Trotta vedi scheda film

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La recensione su Rosenstrasse

di giancarlo visitilli
4 stelle

Anton, Elhias, Argon, Natan, Erick, Fabian... Solo una quindicina di loro, quel settimo giorno del ’43, uscirono e ri-videro le loro donne, “le puttane degli ebrei”, che li aspettavano lungo la via Rosenstrasse. Una micro-storia che comincia il 27 febbraio e si conclude (c’è stata mai una fine a tale barbarie, visti i vari integralismi odierni?) il 6 marzo di quello stesso anno. Questo è l’arco di tempo che racconta la regista tedesca Margarethe von Trotta nel suo ultimo lavoro, Rosentrasse, presentato in Concorso alla 60ma Mostra del Cinema di Venezia (2003); Coppa Volpi alla migliore attrice (Katja Riemann).
Ruth è una ebrea tedesca trasferitasi negli Stati Uniti d’America dopo la guerra. E’ dunque una sopravvissuta alla Shoah, ma non ha mai affrontato questo argomento con i suoi figli. La morte dell’amato marito però scatenerà in lei il desiderio di tornare ad un ebraismo ortodosso. La regista teutonica sceglie di far entrare una madre e una figlia ebree nella dimensione del ricordo e della rielaborazione del dolore senza perdere di vista il contesto storico-politico della vicenda. Il cammino sarà tutto in salita. Un calvario verso la riscoperta della propria identità. Alla luce della memoria.
Sin dal prologo, questo film, che sin dalla presentazione a Venezia fece parlare (fin troppo) di sé, ha la capacità di sedurre i nostalgici e coloro che hanno sempre voluto vedere la spettacolarizzazione della vita di un popolo massacrato e condannato in massa ad ogni forma di tortura. A questo devono aggiungersi: il budget hollywoodiano e le prime sequenze del film, che ci mostrano la New York di oggi (chiaro motivo d’attrazione di un mercato ancora fiorente). Ben presto lo spettatore avrà motivo di comprendere come il film di una regista che torna dopo dieci anni dietro la macchina da presa e che si è sempre distinta per l’attenzione a ‘tematiche femministe’, è modesto; si caratterizza solo per l’originalità del racconto. Una pagina di storia, che vede protagoniste le mogli “ariane” di Rosenstrasse, che con determinazione difesero i loro mariti e compagni ebrei, protestando per settimane davanti all’Ufficio della Previdenza Sociale Israelita, nel quale erano stati rinchiusi dalle SS. Una sorta di ‘personale’ di tre donne, fragili e forti, in rappresentanza di tre generazioni differenti e legate tra loro, oltre che da un rapporto di amicizia e di parentela, da un’identità comune: essere ebree tedesche, depositarie di una memoria storica che va indiscutibilmente preservata, soprattutto oggi, in vista dell'avanzare di un minaccioso revisionismo storico, per cui c’è d’aver paura non tanto di dimenticare (le nuove generazioni sanno fin troppo a riguardo), quanto di essere dimenticati nelle nostre ‘lotte di resistenza’ nei confronti della storia che ormai è solo e sempre storia dei grandi, con la ‘g’ minuscola.
L’impianto del film è solidamente classico (c’è molto Sautet), tranne l’eccessiva lunghezza (ma ormai è di moda!). Semplicemente una variazione sul tema, rispetto a tanto ‘olocausto cinematografico’, attraverso la formula straabusata, come quella del racconto del sopravvissuto, con tanto di flashback in bianco e nero. Meritoria, invece, la scelta del cast, tutto ‘made in German’, con bravi interpreti, come Katjia Riemann e Maria Schrader, ai cui volti la regista ha affidato il compito di comunicare il dolore, nonché lo stupore di fronte allo sviluppo demenziale di quella che tristemente fu definita la “soluzione finale”.
Tuttavia, bisogna riconoscere la difficoltà oggettiva di riuscire a rappresentare attraverso il linguaggio audiovisivo, l’indicibile, il male assoluto, ciò che sfugge ad ogni tentativo di raffigurazione estetico-narrativa. Per questo c’è da chiedersi: dopo Il pianista di Polanski, Schindler’s List di Spielberg (escludendo tutte le furbe intenzioni di pontercoviana e benigniana memoria) a che serve un finale in gloria, come nel caso di questo film? Perché non tagliare buona parte del finale del film, in omaggio alla verità storica che tutti ormai conosciamo, ma che rischiamo di dimenticare andando al cinema per vedere film di questo genere?
A chi ci penserà almeno una volta in più, prima di andare a vedere questo film: un modo per ‘distinguersi’ in una società che ormai ci spettacolarizza e ci massifica alla grande, noi consigliamo di recuperarsi il film Gli ultimi giorni di Steven Spielberg, da pochi conosciuto. Non sarà a caso che un film come quest’ultimo, in cui si ribaltano i rapporti tra chi fa e chi racconta la storia (quella con la ‘s’ maiuscola), lasciando la parola e i lunghi silenzi ai veri protagonisti di quella continua barbarie, c’interpellano per ricordarci che “non basta solo fare memoria”. E l’’olocausto’ di tanti palestinesi-isaraeliani-iracheni-turchi…persone?
Giancarlo Visitilli


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