Regia di Takeshi Kitano vedi scheda film
Diciamolo subito, il finale si salva. Se non fosse certo per quel procedere verso l'alto di certi fotogrammi, e per quel compiacimento autoriale che spinge "Beat" Takeshi a disporre oblique e testarde inquadrature, sarebbe quasi una sequenza indimenticabile, che si pone come sigillo di un'opera nuova all'interno della filmografia del regista, che però ha dato spesso di meglio "ripetendosi", come appunto avviene in Brothers. Zatoichi gode di una zoppicante vita propria perché immerso lurido e distante nel manierismo più insulso, arrogante ed esibizionista, che si diverte nel cambiare i generi e nel distogliere l'attenzione del solito viziato spettatore occidentale con insignificanti siparietti autoreferenziali. Dell'Oriente in Zatoichi rimane poco e nulla, se vogliamo addirittura il folklore più paonazzo e risibile, ma potrebbe essere considerato coerente, come fatto, con la volontà del misterioso regista di prendere tutto giusto parzialmente sul serio, e di gettare tutto nella farsa che meno si adegui ai contenuti e che più si concentri sulla forma.
E allora andiamo alla forma, a quella scatola che vanta una serie incostante di trovate visive che si consumano di fronte al vuoto totale, sia sarcastico che intenzionale. Le stesse intenzioni di Kitano sono vuote, non aspirano a nulla se non a destrutturare l'atto stesso di farsi coinvolgere da un divertissement poco impegnato; perché i ritmi, le alternanze, le esagerazioni, le allitterazioni mimiche dei vari personaggi che ballano più che recitare, sono tutte accompagnate da un gusto strafottente del patinato e del kitsch che incenerisce qualunque possibile costrutto filmico. Il tedio assale dopo ogni scena che più vuole "intelligentemente" divertire, più aumenta il compiacimento di Takeshi quando si convince di stare destabilizzando infilando una serie di sequenze serie fra un ammazzamento di uno splatter tanto finto da infastidire (e mancano gli sprazzi tarantiniani) e la comparsata patetica e malsanamente demenziale di un omone in mutande convinto di essere un samurai, urlante come la nostra beneamata pazienza. Armati di spada anche di più dei convintissimi personaggi, assistiamo alla celebrazione ridondante del nulla, da quella di un Giappone ammaliato da se stesso e stancamente trascinato da sentimenti classicisti (!) di vendetta e di saggezza (il Tiresia kitaniano è realmente insopportabile), a quella risaputa e accomodante di realtà affettive distrutte e invero assenti (tanto spudorate da gettare nel dubbio [e infine nella certezza] lo stesso sesso [diverso] di uno dei protagonisti), fino alla triste messa in scena di una contraddittoria ironia che si mozza volontariamente la testa e si dimena come uno dei corpi straziati dalle amputazioni nelle svariate ridicole (tanto da non esserlo, alla fine, più) scene d'azione. Finché lo spettatore occidentale non si troverà di fronte un prodotto su misura per mettere in (non serio) dubbio le proprie certezze filmiche (e neanche tanto, se sa metterci anche il cervello) e infine espellere dalla memoria un prodotto che si atteggia, si presenta in posa elegante neanche ballasse al suono di uno strumento (che nasconde una lama al suo interno) e infine inciampa lui stesso, neanche fosse stato tutto il tempo cieco come il protagonsita, e si ritenga convinto di essere, dopotutto, saggio, in un saggio di biricchina arroganza qual è questo film. Il sottovalutato Takeshis', quello sì che sapeva gioiosamente mettere in dubbio se stesso; o ci siamo dimenticati del vero demenziale alla Kitano? In quel caso, si recuperi Getting Any? al più presto, che Zatoichi vale come un bastone al posto di una katana da samurai.
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