Regia di Takeshi Kitano vedi scheda film
Fin dal lontano 1962 il mitizzato guerriero orientale affetto da cecità che si batteva per le ingiustizie è stato protagonista (in Giappone) di numerosissime pellicole e miniserie (tanto che ultimamente è uscito un costosissimo cofanetto Criterion Collection che farà la felicità degli appassionati). Era quindi normale pronosticare l’adattamento cinematografico d'autore del maestro Kitano, il quale ha voluto proporre al pubblico la sua interpretazione (anche fisica) del samurai massaggiatore ideato dalla mente di Kan Shimozawa, le cui storie si sono verificate presumibilmente tra la metà degli anni ’30 e ’40 dell’ottocento. Un prodotto in cui si alterna una pulitissima violenza grafica diretta a regola d’arte con lo humour maturato negli anni della gioventù di Kitano, ovvero quando si esibiva come intrattenitore presso Asakusa; nonostante la rotazione tra il registro farsesco e quello più parco non convinca del tutto sul piano della sceneggiatura, andando leggermente fuori insieme in certi punti, la mdp dell’autore è praticamente infallibile nei frammenti di lotta concitata, e chi è in cerca di un quadro filmico altamente raccapricciante nei contenuti, che nel contempo non dimentica un'intelaiatura intrigante nell’intercapedine dei caratteri, troverà in "Zatoichi" molta carne al fuoco. Risulta innegabile che Kitano abbia prediletto volontariamente la spettacolarità alla narrazione, utilizzando inserti musicali coreografici degni delle migliori rappresentazioni del Piccadilly Theatre, ed entusiasmanti scontri di katana “tutti contro uno” conditi dalle sostanziose dosi di gore che gli astanti si aspettano. Durante il suo cammino spirituale Ichi incontra gemelli strappati all’infanzia e pronti alla vendetta verso i loro carnefici, donne ricattate dalle gang dei prepotenti del luogo, ronin senza onore che si sottomettono alla Yakuza, e bottegai soggetti ad estorsione. Lo scopo del samurai è quello di scovare la tana della Testa del Drago che fa capo a tutto ciò e metterlo fuori portata. I “malcostumi” di Ichi come il gioco d’azzardo e i piccoli balletti privati delle geishe lo aiuteranno a trovare il suo arcinemico e Kitano non dimentica di dispensare fra un dialogo e un sanguinoso combattimento quell’autoironia necessaria a non rendere troppo fredda e stantia l’andatura della trama, grazie a flashback e drammi adeguatamente distribuiti nella raffigurazione storica, garantendo un ritmo compassato conveniente a non portare alla noia. Una piccola polemica (prettamente personale) va alla fotografia: stuzzicante agli occhi nelle ambientazioni esterne ma troppo cupa e priva di tonalità vivaci all’interno delle strutture, dove il grigio prende il sopravvento sugli altri colori, probabilmente a causa di una preferenza di gusto cosmetico orientata ad inclinazioni decorative di natura minimalista. Il cast però è ricco di partecipazioni di spessore, tra cui rimangono in memoria la nativa-cinese Michiyo Okusu (Aunt Oume), lo spassoso amico del regista Ittoku Kishibe (Ginzo), la bellissima e letale Yuuko Daike (O-Kinu), e Tadanobu Asano, nel ruolo dell’impavido e feroce killer Gennosuke.
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