Regia di Amos Gitai vedi scheda film
Quaranta piani per quaranta scene. Un gruppo eterogeneo di personaggi per un affresco-bozzetto ambientato in un quartiere popolare al confine tra Tel Aviv e Jaffa nell’Israele di oggi. Un Paese diverso da quello che strappa i teleschermi con cronache di attentati terroristici, di rappresaglie e di tensioni eterne. Nel patio, nel condominio, nel piano terra in cui Gitai prende in affitto una stanza per la sua macchina da presa - per osservare il tessuto connettivo della comunità presa in prestito dal romanzo di Yehoshua Kenaz, Returning Lost Loves - esiste un mondo diverso. All’interno del quale i contrasti sono meno drammatici. La voce del regista annuncia i titoli e augura buona visione agli spettatori, prova a confondersi con i suoi personaggi (questo è uno dei problemi del film) che sono il coagulo nervoso e sensuale di una diaspora in cui si sovrappongono dettagli di storie che troviamo già in corso e che sono lasciate aperte dal film. Gitai non serra le fila, non guarda al passato o al futuro. Nel fuoricampo. Il vecchio Schwartz e Linda, la sua filippina; Hezi e la sua amante Gabi; Aviram e il suo cane; Mali e Ilan; l’ex-marito di Mali e i suoi operai cinesi senza permesso di soggiorno. Eyal, il figlio della ex-coppia, che ha disertato. Questi sono i caratteri, poco strutturati, che, chiacchierando, discutendo, litigando “montano” questa cronaca, abbastanza piatta, di ordinaria quotidianità.
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