Regia di Bruno Dumont vedi scheda film
Premessa: non leggo mai altre opinioni / recensioni prima di dire la mia. Preferisco constatare somiglianze piuttosto che correre il rischio di farmi influenzare. Inoltre, sono indecisa tra 4 e 5 stelle e se potessi forse il voto sarebbe 9, ma dei numeri mi importa poco. Orbene, detto questo, secondo me Magrelli non ha capito una cippa di questo film né di Bruno Dumont.
Sempre questi tempi dilatati ma colmi di informazioni ed emozioni. Il volto di Katia, osservato a lungo e con devozione, esposto con pazienza, con tutte le sue espressioni attese e allineate lentamente davanti alla macchina da presa, sono quasi teatro sezionato, scarnificato, scrutato, analizzato al microscopio o meglio con un macro. Non c'è niente come i suoi lenti ma non impercettibili cambi di espressione che possa descrivere meglio i tormenti che la attraversano, noti o meno allo spettatore non importa. Ma come a teatro e paradossalmente a differenza della parola scritta, lo sguardo sui movimenti del suo volto è prolungato perché deve avere il tempo di raccontare quello che in un libro, forse, sarebbe una lunga e dettagliata descrizione di stati d'animo, di ipotesi, di paure e di ricordi che riemergono. Il volto di Katia trema e potrebbe essere per il fondo stradale sconnesso che stanno percorrendo in auto, ma noi sappiamo che non è così: trema per quello che la attraversa, che si sta preparando dentro di lei per esplodere. C'è qualcosa che non funziona: lei e David si incrociano, si contrappongono troppo spesso. Quando ascoltano il rumore delle pale eoliche, quando arrivano in piscina, quando entrano in acqua, quando sono in acqua (lei in movimento, lui fermo). Ogni direzione che prendono si oppone a quella dell'altro. Allora perché sono insieme?
Dumont mi uccide: quando lui le si avvicina lentamente in piscina. Quando si guardano senza parlarsi. Perfino quando di notte dormono abbracciati. Il respiro di lei fa paura, perché Dumont me lo vuole far sentire, e se lo vuole ci dev'essere un motivo.
Ma c'è anche qualcos'altro di spiazzante: Katia e David sono sia Persone che Personaggi. Mai contemporaneamente, beninteso. Passano continuamente dall'essere gli uni agli altri senza soluzione di continuità. In questa politica del non detto verbale ma urlato non verbale, io spettatore non riesco ad accorgermi del passaggio dai Personaggi, insostenibili, lontani, archetipici, alle Persone, fragili, comuni, verosimili. Ad ogni istante mi aspetto una svolta grottesca o drammatica, qualcosa che abbia a che fare con un giudizio, una qualche morale (ma quale?) e che tradisca la presenza di un narratore, e mentre mi concentro nel tentativo di cogliere tutti i messaggi concatenati, ecco che spunta, o meglio ritorna, questa affascinante alternanza di inglese e francese, di parole note oppure ricordate sbagliate, questo tocco di realismo che mi rammenta che queste due Persone, che fino a poco prima cercavo di analizzare e forse comprendere in quanto Personaggi, potrebbero in fondo anche essere una coppia mista qualunque che vive in una cittadina qualunque, e cerca in fondo solo di comunicare facendo ricorso a tutti i possibili terreni comuni, di cui la lingua è giustamente quello più tortuoso e il sesso purtroppo quello più ingannevole.
Ma tra di loro non comunicano. Nemmeno gli I love you lanciati all'aria ogni tanto hanno un sapore concreto, ma si sciolgono e spariscono all'istante. Come il portachiavi di ferreriana memoria, dato in pasto a un vuoto e svuotato Christophe Lambert, le parole che dovrebbero essere le più comuni, le più riconoscibili, le più dirette e universali, sono solo mute e isolate. Viene da dire che finora (almeno per quanto ne posso sapere) nei film di Dumont non c'è speranza nella comunicazione, "ma non nel senso di quei film dove c'è un uomo e una donna che si odiano, si sbranano su un'isola deserta perché il regista non crede nelle persone. Io credo nelle persone, però non credo nella maggioranza delle persone", ecco: se non suonasse buffo o grottesco in questo contesto, almeno, fare una citazione del genere. Dumont crede nella comunicazione, ma non crede nella possibilità che la maggior parte della gente ne sia capace.
Comunica Pharaon de L'humanité, ma lui non è normale, anzi sarebbe decisamente un disadattato se non avesse un lavoro vero come tutti i suoi concittadini.
L'unico momento di comunicazione forse reale di David e Katia, invece, non riesce a durare, non trova un suo spazio, perché viene interrotto dall'arrivo di altre persone (i ragazzi in piscina).
Poi, in una scena notturna Katia è sola, e inquadrata su uno sfondo di un camion che porta la scritta 29 PALMS. Ma è notte, il 9 è scuro, e cosi si vede solo il 2, col risultato che le palme sono due e non ventinove. Due palme, a immaginarle così vicine, alte come sono, non si incontrano mai, come due binari, come due rette parallele.
Katia è sola, David altrove. E lo spettatore, nel momento in cui finalmente si trova da solo con entrambi, assaggia finalmente l'incomunicabilità definitiva. E con quella, anche la paura definitiva, di quando i respiri che si sentono diventano finalmente due, già, sapevo si sarebbe scoperto, sapevo che l'avrei scoperto, forse temevo il respiro proprio perché l'avrei scoperto. E Haneke ne sa qualcosa.
Semplicemente stupendo.
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