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Twentynine Palms

Regia di Bruno Dumont vedi scheda film

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La recensione su Twentynine Palms

di EightAndHalf
7 stelle

L'uomo e il contesto. Hanno sfoltito la siepe di Leopardi e dietro non c'era nulla.

Rimanere attoniti, ma attoniti per cosa? E' più possibile rimanere attoniti? Questo non costerebbe presupporre un essere umano, magari non pensante, ma formulante giudizi, emozioni? Vuoto, è il vuoto della mente e il vuoto degli spazi: Dumont non fa cinema di personaggi, non fa cinema di storie, non fa cinema di contenuti. Le sue opere sono pura forma sfuggente che evanescenti ricoprono come con un velo gli esseri umani. Le figure umane sono piccole parti di affreschi più grandi, infiniti, quelli compressi 'dentro' e quelli da decodificare fuori, ed è il cinema a ricercarli. 'I wanna check out the locations, I wanna check out the hotel', ci vogliono solo pochi giorni, e la macchina è già marchiata da un nastro rosso sangue sul volante. Il fatalismo si insinua come una ruota che striscia sul ruvido selciato e frena sollevando un grosso polverone, e i due corpi si scrutano, vogliono guardarsi, vogliono giudicarsi, giudicare l'altro e giudicare se stesso, su sfondi di cartoline ammuffite e bronzee valli punteggiate di marrone. Conoscere la location è collocare se stessi nella location, un deserto come una camera d'albergo, e la propria immobilità simula il vuoto: già sappiamo come andrà a finire. I personaggi sono modelli su cui l'occhio dell'osservatore modella figure pure, due nuovi Adamo ed Eva nell'Assoluto, perché sono solo loro e conoscono loro stessi. Twentynine Palms è un processo di conoscenza che sfrutta i sensi, il sentimento e la razionalità, ma è già conscio del proprio fallimento e si attorciglia su medesime situazioni, medesimi contatti. La mdp ha davanti paesaggi incontaminati o magari contaminati e già scarnificati della presenza umana, e nel dopo-Humanité il Bene aveva conosciuto il Male perché debole e richiedeva una definizione più forte. Perché il Bene era debole, e baciava il Male. I simboli, in Twentynine Palms, scompaiono, o meglio si inabissano nella quotidianità e nella conforme normalità dell'America consumistica e tv-addicted, e non si può non pensare al contrasto che già proponeva Antonioni fra i corpi che tornavano a purezze miracolose e le esplosioni di ciò che provocava l'eterna indifferenza in Zabriskie Point. Eppure, nell'evidente atteggiamento autoriale che Dumont dimostra (e che almeno qui si può permettere) nella ricerca dell'immagine e dello stimolo visivo, sembra si sia resa più essenziale quasi una ricerca metacinematografica alla Wenders, di immagini da Alice nelle città e non di suoni, ma una ricerca artistica che è anche una ricerca di senso. Una ricerca che parte monca, come è il vageggiare assorto per le stesse locations in cui consumare i rapporti umani con l'estremità della sessualità acerba, sabbiosa, camaleontica, né lontana dall'inerzia del deserto né distante dall'indefinitezza della camera da letto, talmente normale da sfiorare l'assurdo. Il contrasto non è solo visivo, come in Antonioni, ma ciò che si vede più che rimandare, come in L'humanité, tende a rappresentare ciò di cui parla, il vuoto conosciuto non accettato per una strana legge di natura che ci impone uno sforzo verso un nulla. L'urlo di dolore di un amplesso è l'urlo di dolore dell'omicidio, non tanto Eros e Thanatos, ma Eros Oudév, per rimanere nel greco, Amore e Nulla, e la Morte è un passaggio necessario, un po' come la violenza. I due protagonisti si ripetono più volte 'I love you' o 'Je t'aime', nonostante la loro distanza esistenziale e linguistica, e il sesso placa le distanze tra l'uomo e la donna, gli esseri umani, che possono incontrarsi solo negativamente: tutti intorno a loro fanno loro del male, oppure loro stessi fanno male agli altri, come con il cane senza gamba. Nel vuoto di definizioni, lo sforzo verso il nulla sta forse tra il Bene e il Male, nel vuoto che sta in mezzo, dove stanno gli uomini, anzi, i microcosmi di uomini, quelli isolati, che si avvicinano non grazie alla lingua (e alla cultura, per estensione), ma grazie al contatto fisico di carnagioni brune, chiare, che nel grigio della pietra, nei colori saturi della stanza d'albergo e nel giallo del deserto finiscono per essere campitura e privarsi del volume, accecati dalla luce del Sole. E se proprio ricerchiamo Bene e Male, nella corruttibilità dell'esistenza sensibile, allora loro sono il Bene, e vengono sconfitti dal Male più forte, benché facciano del male a un Bene inferiore (il cane malandato). Nella ricerca, Dumont capisce, alla fine, di poter riprendere solo una natura morta, e che lo stesso sguardo, che è ciò che sta rappresentando, sta morendo. Nei riflessi di sguardi, di guardati e di coloro che guardano, Twentynine Palms è un grido soffocato di sofferenza, potente, magari non ipnotico quanto si vorrebbe (e forse questo è più vicino a un gusto e a una sensibilità personali), ma efficace, da non liquidare con i metodi critici usuali, come in molti purtroppo hanno fatto. Dunque, un film unico.

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