Regia di Paolo Benvenuti vedi scheda film
Domenica, 15 maggio 2016. Piana degli Albanesi, Palermo. Isola della Sicilia. In un appartamentino rimesso a nuovo di Via Bruxari, sul suo letto di morte, il contadino e militante comunista Mario Nicosia vede gli angeli. E sorride loro. “Io ho vinto”, si ripete mentalmente mentre la luce del giorno appena fatto sta diventando notte fredda. “Noi abbiamo vinto, la mia generazione di uomini poveri ma scaltri ha vinto la sua guerra. Perché questa terra l’abbiamo cambiata ed in meglio. Anche sotto il piombo della mafia, lo abbiamo fatto!”. Nicosia, un piccolo ma arcigno lavoratore che ha passato quasi tutta la sua vita nei feudi tra Strasatto e Rebuttone, la morte l’ha vista davanti a sé, più volte in esistenza sua e dei suoi amici. Di certo non può dimenticarla, quando gli apparve – sfolgorante nel sole primaverile, sibilante in angeli di proiettili di mitraglia – in Pian della Ginestra, praticamente settant’anni prima, sotto alla rocca dove mafiosi siciliani, banditi separatisti, servizi segreti americani e fascisti della X Mas si erano dati appuntamento. Per fargliela perdere quella guerra, a lui ed ai suoi compagni.
Stacco. 21 aprile, è l’anno dopo, il 2017. Il nostro anno attuale. Un’importante carica istituzionale siede al tavolo dei relatori a Palazzo Steri, a Palermo. Prende il microfono, e non appena si calmano le ondate ritmiche del familiare applauso di circostanza, rende noto che lo Stato è impegnato a far cadere le ultime barriere sul silenzio che ha ammantato – per troppo tempo, sarebbe d’aggiungere – quell’agguato, teso a tradimento a Nicosia ed a centinaia di altri siciliani che tagliavano il pane e bevevano il vino, facendo festa sotto alla pietra sacra di Kola Barbati. Il messia laico arbereshe di Piana. “Verrà tolto a molti atti, spero entro al fine dell’anno prossimo, il segreto di stato”, dice il politico. ‘Segreto di stato’, che parola inquietante! E intrigante…
E’ la primavera del 1969, a Pisa. In Piazza Sant’Antonio, davanti ad un bar, tre persone stanno gustando il caffè. Sono un giovane componente dell’Arci locale, poi c’è Paolo Benvenuti, responsabile del Circolo di Cultura “CinemaZero” ed un terzo signore, sulla sessantina, molto serio e compito, a cui i due mostrano una palese referenza.
Cambio di scena. Vita, ore 21 e 30 di domenica 04 settembre 1960. Su un palco montato alla svelta, l’intera comunità del piccolo paesino, stretto tra i comuni di Salemi e di Calatafimi, si è data ritrovo. Si balla e si canta su quel palco, mentre, ai piedi dei tavolacci, delle persone ‘strànie’ si compiacciono dell’atmosfera scanzonata. Uno di essi, in particolare, viene riverito e risponde con grandi sorrisi e strette di mano a chi lo circonda e lo ringrazia. Questo signore è un regista, si chiama Francesco Rosi, ha appena finito di girare le scene del presunto agguato a Salvatore Giuliano nel cortile moresco di casa De Maria, a Castelvetrano. Il suo film, il “Salvatore Giuliano” appunto, verrà alla luce quasi 20 mesi dopo; una gestazione lunga e complessa, segnata da più di un contraccolpo e da polemiche mai sopite. A Vita, Rosi ha messo su parecchie scene del film, anzi con la sua troupe è stato accolto amorevolmente nelle case della povera gente, ed ora – d’accordo con la produzione – vuole rendere omaggio alla disponibilità e all’amicizia dei vitesi con una gran festa di piazza. Anche il signore di prima, quello che sorseggia il suo cappuccino circondato dalle premure dei due ventenni, è un regista; si chiama Roberto Rossellini, ha deciso da qualche anno di sviluppare la sua idea di cinema didattico ‘usando’ il media televisivo e, con alterne fortune e risultati non sempre apprezzabili, sta definendo questo suo scrupoloso intento pedagogico. Anche lui, in verità, è passato dalle campagne tra Salemi, Vita e Calatafimi. Praticamente, quasi nello stesso periodo di Rosi. Per il suo didascalico e ‘freddo’ “Viva l’Italia!” ha rastrellato molte comparse tra i giovani dei tre comuni, soprattutto utili nella famosa scena di massa della battaglia di Pianto Romano, ed è rimasto sorpreso – lui, regista del realismo – della grande foga, della reale passione che mettevano quegli ‘attori per un giorno’ negli scontri corpo a corpo. Infatti, ma questo lui non lo può sapere, salemitani e vitesi (che impersonavano i garibaldini) avevano colto l’occasione per suonarle di santa ragione a quelli della rocca (che avevano avuto il ruolo dei ‘napolitani’). Storie di paese, folklore locale. Quando, tra un sorso di caffè ed un sorriso, il poco più che ventenne Benvenuti – già esperto dei primi rudimenti di ripresa cinematografica –, gli chiede come fa a stabilire dove mettere la macchina da presa prima di girare una scena, il Maestro improvvisamente si cruccia. Squadra il giovane, lo legge animato da un’autentica volontà di sapere e gli espone – lì, improvvisamente – il concetto chiave di tutto quanto il suo modo di fare arte filmata. “Un soggetto può essere ripreso da infiniti punti di vista”, gli dice, “ma ce n’è uno solo giusto. E va trovato. Il punto di vista giusto è quello che dà il maggior numero di informazioni allo spettatore”. Paolo Benvenuti si appunterà quel consiglio su un tovagliolino di carta, sul tavolo di quel bar, lo riporrà tra i suoi più cari ricordi e ne farà la summa tematica del suo stesso far cinema.
E siamo quindi giunti, dopo un largo giro, a questo mirabile esempio di ricerca cinematografica che ha radici profonde nell’assunzione della storia, non come alibi ma bensì come ragione del racconto per immagini. Un approccio di cui si è sempre fatto difensore Benvenuti, conscio della lezione lasciatagli da Rossellini e sicuramente consapevole anche dei fallimenti di quel regista e di quel registro cinematografico. Benvenuti è un tipo tosto, uno che non le manda a dire e che ha ricamato la sua non nutritissima filmografia (solo 8 lungometraggi in più di quarant’anni di carriera), con rare perle di una forma magicamente sospesa tra realtà e ‘realismo’. Tutti film che possono benissimo essere rivisti, come una personale rilettura della storia del nostro paese. Dalla ‘trilogia dei Vangeli’ (“Il bacio di Giuda”, “Confortorio”, “Tiburzi”), al bellissimo “Gostanza da Libbiano” (spettacolare resa tra Dreyer e Bresson, di un processo inquisitorio ad una strega di fine ‘500; film usato come ‘libro di testo’ dalla Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Lecce), fino all’enigmatico e sensuale “Puccini e la fanciulla” del 2008. Con questo “Segreti di Stato” – sceneggiato dopo 6 anni di duro lavoro di ricerca e completato grazie alla scoperta di più di mille documenti top secret, desecretati nel 2000 dall’amministrazione Clinton –, Benvenuti rende pan per focaccia a Rosi, in una sorta di duello ideologico-politico-cinematografico a distanza, sul tema caldo della strage di Portella della Ginestra, del 1° maggio 1947.
Rosi, secondo la tesi di Benvenuti, compone il suo capolavoro negli anni in cui al potere in Italia c’era proprio quello Scelba che, nella vicenda Giuliano-Pisciotta, ha così gran parte; ed il “Salvatore Giuliano” altro non diventa che un segnale politico distensivo che il Partito Comunista di allora invia alla Democrazia Cristiana sul tema della creazione o meno della Commissione Parlamentare Antimafia. Rosi definisce il bandito di Montelepre, come un capobanda cinico e spietato (si veda una delle prime scene del film, quando dalla montagna l’esercito dell’EVIS spara all’impazzata sulla gente andata a riempire l’acqua), proprio per circoscrivere tutto il ‘fatto’ del ’47 ad una strage criminale da imputare solamente a Giuliano. Il messaggio, sempre secondo Benvenuti, è chiaro. “Facciamola pure la Commissione, e noi stenderemo un velo su Portella, non chiamando in causa nessun politico!”, volevano intendere quelli del PCI. Qui, in questo lavoro ‘benvenutiano’, non c’è posto per l’acconcio delle responsabilità, anzi. Il personaggio principale del film è un avvocato (interpretato in maniera sorniona da Antonio Catania), che impersona la reale figura storica di Giuseppe Montalbano, all’epoca dei fatti vice-segretario del PCI siciliano e il più stretto collaboratore di Girolamo Li Causi. Montalbano, in pochi mesi di indagine personale, scopre la pista politica della strage e compie due atti importanti: deposita una denuncia presso la Procura di Palermo, facendo nomi e cognomi di importanti uomini politici (gli stessi che, nell’aula del tribunale di Viterbo, poi nominerà lo stesso Pisciotta), e spedendo un corposo dossier alla segreteria nazionale di Palmiro Togliatti. Gli effetti di questa sua azione di verità saranno devastanti, ma solo per la sua persona. Qualche mese dopo, la mafia palermitana gli farà sparire il figliastro (il primo caso documentato di ‘lupara bianca’), ed il partito, dopo alcune ammonizione a lasciar perdere, gli toglierà qualsiasi incarico emarginandolo anche politicamente.
Ecco, questo è il cinema ‘rosselliniano’ di Benvenuti, un cinema di inchiesta e di condanna, che non teme di aprire i conti e di chiuderli venendo pure alle mani (metaforicamente parlando), con i mostri sacri della tradizione e del senso comune. Intriga inquietando.
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