Regia di Marco Bellocchio vedi scheda film
Anni di piombo, il sangue era il colore predominante delle strade dell'Italia, fra scorribande mafiose e misteriosi mandanti politici. Bellocchio, che pure è consapevole del periodo storico che vuole trattare, realizza un'opera universale, unica, che trasforma un argomento storico-politico in una ricerca umana ed esistenziale, quella di Maya Sansa, che, da buona brigatista, appoggia il volere dei suoi compagni, ma è anche convinta, da buon essere umano, che la sua ideologia non debba diventare estrema alternativa alla giustizia umana. Entrando visibilmente in contrasto con un pensiero che apprezza, le cui immagini emblematiche (la Russia sovietica in bianco e nero) le si ripropongono costantemente nella memoria, lei è l'esemplare di quel tipo di essere umano capace di compatire, di commuoversi, in mezzo a uomini, quelli brigatisti, incapaci di cogliere la pietas e l'umanità a favore di un'utopia irrealizzabile (da rincorrere, certo, ma non in questi termini), e un uomo solo, il prigioniero Aldo Moro, che invece desta in lei il ragionevole dubbio riguardo la di lei posizione ideologica. E gli sguardi pensierosi del deputato DC, dentro la sua gabbia accesa dal rosso fuoco della bandiera delle BR, la spinge a un cambiamento d'idea che è graduale, costante, e diventa lotta interiore fra adesione al movimento comune (che poi è quello del limitato comunismo estremo) e adesione alla minoranza nel microcosmo brigatista (che poi è l'andamento generale dell'intera Italia). Mai la protagonista sembrerà vicina a cambiare i presupposti, i borghesi rimarrano sempre ipocriti, come sono sempre stati ai suoi occhi, e vorrà "la classe operaia sempre al comando", ma la dittatura di questo proletariato cerca di imporsi, a sua volta, in un'Italia in cui va perdendosi il vero senso civico, in cui a poco a poco ci si scorda dell'origine dello Stato (la Resistenza), in cui lentamente si perdono obbiettivi, in cui facilmente si può fare terrorismo. Nel nichilismo valoriale di un'Italia infreddolita, la protagonista, compressa dai suoi compagni estremisti eppure straordinariamente umani (umanizzati dalla regia delicata ma perturbante di Bellocchio), ricrea un proprio orientamento ideale, lo realizza in sogno, è tentata dal fare una rivoluzione contro la rivoluzione, mentre la cecità di Luigi Lo Cascio, incapace di comprendere le possibili conseguenze dell'uccisione di Moro, fa presente la posizione di Bellocchio, che va ben oltre la semplice imparzialità e guarda al lato umano di una vicenda storica, perché è sempre l'uomo a fare la storia, sebbene la influenzi "esprimendo solo una piccola parte delle sue possibilità", dandole un volto nuovo e incomprensibile, dandola in pasto a tragedie assurde e irreali. La vera ipocrisia diventa l'errata interpretazione dei testi storici, di quella letteratura che tanto sarebbe alla base del pensiero brigatista ma che è soltanto la facciata per nascondere (dietro una libreria) un errore di percorso, una decisione affrettata, la prigionia di Aldo Moro (tanti sono oltretutto i riferimenti alla cultura libraria, la stessa protagonista lavora come bibliotecaria). Mentre i Pink Floyd rimbombano nelle nostre orecchie, scaldando il cuore e allo stesso tempo inquietando le menti, assistiamo a un film pulsante, vivo, dotato di grande delicatezza e allo stesso tempo di notevole forza visionaria (straordinaria la sequenza della benedizione della casa, che sembra l'Estrema Unzione di Moro), capace di mischiare senza intellettualismi sogni (ideali di comportamento) e realtà, libertà e prigionia fisica e mentale (per Maya Sansa Moro e loro stessi brigatisti sono effettivamente chiusi nella stessa prigione, specie i brigatisti costretti a tenere nascosto l'ostaggio), trascendendo i canoni del film di genere senza spettacolarismi, rendendo Buongiorno, notte, ossimoro e contrasto esistenziale, uno dei suoi capolavori insieme a I pugni in tasca, riducendo il carattere eversivo della sua opera prima, perdendo certo impeto e cattiveria, ma assumendo una posizione saggia e consapevole. Tanto che, ancora più che dagli occhi di Maya Sansa, ci sembra di osservare la vicenda dagli occhi di Moro, personaggio qui non idealizzato ma umanizzato e visto come uomo acculturato e saggio, in cerca di dialogo. I suoi eventuali trascorsi politici vengono allontanati. E la vicenda la si osserva non tanto con gli occhi del Moro imprigionato, ma con gli occhi del Moro sognato dalla protagonista, un Moro libero, pietoso nei confronti dei suoi carcerieri, sorridente, capace quasi religiosamente di perdonare, un Moro che cammina nelle strade fuori dalla prigione, libero. Libertà negata.
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