Regia di Gennaro Nunziante vedi scheda film
Un fenomeno economico, diventa anche un fatto sociale, necessario di analisi. Ennesimo comico televisivo/teatrale, debutta al cinema, con sommo orrore della critica e di un certo pubblico snob, che poi alla fine pare abbia affollato lo stesso le sale.
Negli Stati Uniti è una cosa all'ordine del giorno nell'ottica della loro industria, ma in Italia dove l'ottica anti-mercato è molto forte, questo viene visto come svilimento del cinema. Su cosa sia arte, non ci interessa disquisire. C'è un dibattito filosofico, letterario e culturale su tale termine, dalle origini millenarie e tutt'oggi inconcluso. Quello che preme analizzare invece, è la comunicazione posta alla base di "Io sono la fine del mondo" (2025). Un film "con" e "di" Angelo Duro (che ha pure co-sceneggiato il film). Presenza ed appartenenza coincidono nel parlato degli spettatori, differentemente dai titoli di testa, che invece attribuiscono la regia a Gennaro Nunziante.
L'opera viene costruita nei suoi 96 minuti, attorno al corpo onnipresente di Angelo Duro. Identità vera e fittizia coincidono, come nei precedenti film del regista con Checco Zalone. Il gioco filmico svela subito l'intento di creare un nuovo "marchio cinematografico". Con il comico pugliese, si era costruito tutto passo dopo passo, partendo con una certa umiltà e voglia di crescere assieme al suo protagonista con "Cado con Le Nubi" (2009), per giungere solo successivamente ai mega numeri di "Sole a Catinelle" (2013) e "Quo Vado" (2016). Qui invece il personaggio è già fatto, formato e finito. Angelo Duro si pone sin da questo esordio, con l'arroganza di chi sta prendendo parte ad un seguito filmico di sé stesso, tranciando ogni percorso evolutivo.
Il corpo di Duro domina la scena. La fissità della sua espressione, le pause nel parlato dopo aver pronunciato pochissime parole e la maglietta bianca che non cambia mai, vengono sbattuti in faccia con strafottente arroganza, la stessa dei modi di porsi del comico nei confronti delle persone con cui interagisce. Non c'è coerenza tra scene, né alcuna logicità nei comportamenti dei personaggi, tutto viene sottomesso alle battute di Duro, creando un cinema privo di tono. Una commedia? Un film comico? Oppure demenziale puro? Nunziante e Duro non abbracciano mai una possibile vena "assurda", in quanto uno non è un regista, l'altro non è un attore, ma soprattutto entrambi non sono sceneggiatori. In mano ad altre maestranze capaci, da tale base di partenza, sarebbe uscito un prodotto sicuramente migliore e compiuto. Perchè l'essenza cinematografica di un Angelo Duro, sfruttata come si deve, risulterebbe assai necessaria per una commedia italiana, assai stantia e conforme all'attuale status quo decennale imperante.
E' un cinema basato sul potere del "logos" a scapito di qualsiasi altra immagine, che non sia la sagoma di Duro, dalla quale non ci si distacca praticamente mai. Lo stesso Angelo Duro mentre sta discutendo in taxi con l'autista, dice di godere di ferire il prossimo attraverso l'arte della parola. Niente di sbagliato in tale scelta, ma il "verbo" di Duro, ha connotati ristretti, provinciali ed involuti, con conseguenze sin da subito nefaste su una costruzione cinematografica inesistente.
Le battute, aspre e taglienti nelle intenzioni, non hanno mai un respiro maggiore del minuto in cui vengono pronunciate. Presto ciò trasforma il film, in uno spettacolo di "stand up" sotto steroidi. Un vero peccato, perchè la vera delusione, risiede nell'aver disseminato qua e là l'opera di spunti interessanti - il mediocre lavoro di autista per ubriachi, genitori opprimenti, un'infanzia da cui è impossibile sfuggire, l'impossibilità di poter cambiare l'esistente, il motto scellerato del tutti i corpi sono belli, la cattiveria insita in ogni essere umano e così via -, ma tutto viene gettato alle ortiche, in quanto subordinato all'ego dell'essere "autodefinitasi perfetto".
Ma chi sono coloro che subiscono la furia verbale di tale uomo? Portatori di handicap, neonate, donne in carriera, obesi, ambientalisti, bambini, omosessuali ed anziani. Tutti soggetti percepiti come "deboli". Praticamente assenti i potenti, offesi di sfuggita ma non in loro presenza o comunque sfruttati come aggancio per scagliarsi contro le categorie citate.
La cattiveria di Angelo Duro quindi risulta meramente programmatica e costruita a tavolino. Valvola di sfogo per un pubblico pieno di rabbia repressa a causa della vita grama vissuta, che magari sfogherà un pò di negatività, attraverso una risata sguaiata, urlando un sentito "vaffanculo" al politicamente corretto. Un misero palliativo, perchè alla fine quando uscirà dalla sala, resterà un povero spettatore frustrato, incapace di comprendere le cause vere e profonde del proprio malessere. La scorrettezza di Duro, non vuole mai elevarsi dallo status di singoli sketch replicati nell'impostazione. A volte riusciti altre no (con pessime cadute di tono in merito alle battute contro neonati, pedofilia ed omosessualità). Mai si cerca di andare oltre il "particolare", per scagliarsi contro l'universale che lo genera. L'apocalisse dell'altisonante titolo, diventa poco più di una brezza. La cattiveria viene alla lunga annacquata nella sua ripetizione, trasformando Angelo Duro in una caricatura, di cui non essere infastiditi o turbati.
Per tutto ed oltre questo, "Io sono la fine del mondo" risulta un fenomeno del botteghino da studiare ed analizzare a fondo criticamente. In quanto gli spunti e le idee presenti, possano davvero essere sfruttati in una chiave commerciale sensata e non mirata ad uno sfruttamento meramente momentaneo. Perchè l'elogio del politicamente scorretto, di cui il personaggio si farebbe portatore secondo tanti spettatori, non venga scambiato per attori ribellione al sistema, ma venga ricondotto a quello che nei fatti è; l'auto-esaltazione di uno che si comporta da stronzo qualunquista.
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