Regia di Keith Fulton, Louis Pepe vedi scheda film
Il documentario Lost in La Mancha di Keith Fulton e Louis Pepe è una limpida dimostrazione di cosa può accadere se la cosiddetta “sfiga” ti prende di mira. Il cuore del lavoro è il diario sulla realizzazione di un film - un capolavoro mancato? - che non vedremo mai, ovvero quel Don Quixote che per circa dieci anni Terry Gilliam, il monello di Minneapolis ed ex Monty Python, aveva sognato, scritto e diretto nella sua mente e che sembrava sul punto di diventare realtà. Lost in La Mancha racconta le ultime settimane di preparazione del set e l’inizio delle riprese, sino alla dolorosa conclusione dell’impresa, per la quale Gilliam era riuscito a racimolare la straordinaria cifra di 32 milioni di dollari, che avrebbero fatto del suo Don Quixote il film più costoso mai realizzato in Europa. Chiunque ami i film troverà straordinario questo documentario che è tout-court una metafora di come spesso il cinema sia la lotta dei sognatori contro i mulini a vento dello star system e della macchina produttiva. C’è il racconto avvincente e chiarificatore del dietro le quinte, ovvero di ciò che avviene su un set prima e durante le riprese che allo spettatore della sala è precluso. E c’è la commovente parabola dello stato d’animo di Gilliam: all’inizio sembra quello di un bimbo che sta scoprendo un mondo fatto di splendidi balocchi, poi subentra il dubbio, l’ombra del fallimento, infine la dolorosa rassegnazione per la fine di un progetto che «non può più esistere perché sarebbe troppo doloroso» e che lo avvicina ad un altro grande che aveva provato la maledizione del Don Quixote: Orson Welles. Le difficoltà produttive, un cast bizzoso, l’inondazione del set al terzo giorno di riprese e infine la malattia del protagonista, quel Jean Rochefort ideale personificazione del suo Don Quixote, sono colpi durissimi per Gilliam, che aveva una fama usurpata di “regista incontrollabile” fin da Le avventure del Barone di Munchausen, e che non soccombe solo grazie alla sua straordinaria ironia («Cos’è, Re Lear o Il mago di Oz»? grida nella tempesta) e a quella dei suoi migliori collaboratori, come l’italiano direttore della fotografia Nicola Pecorini, che si lancia in una gustosa disquisizione sul perché, in questo caso, bisogna proprio parlare di “sfiga” (la sfortuna è un’altra cosa…).
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