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Giurato numero 2

Regia di Clint Eastwood vedi scheda film

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Souther78

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La recensione su Giurato numero 2

di Souther78
6 stelle

Non riesco proprio a conformarmi alla massa: in questo film non vedo una critica alla giustizia, ma una riflessione attorno al dubbio, alla morale, e a quanto sia difficile mantenersi puri allorchè coinvolti personalmente nelle vicende che normalmente ci vedono spettatori o giudici. Opera minore di Clint, ma tutt'altro che disdicevole.

 
In bilico tra verità e giustizia, un Eastwood introspettivo catapulta lo spettatore nella dimensione del dubbio, più ancora che in quella dell'eterna querelle attorno alla fallacia del sistema giudiziario.
 
Molto si è scritto riguardo l'anima di quest'opera, che ai più sembra essere incentrata sulla critica del processo. Se così fosse, non si assisterebbe ai ripensamenti della procuratrice, o agli esempi di rettitudine che, invece, vengono mostrati ogni volta che la cinepresa incede su chi rappresenta il sistema. Fin dall'inizio veniamo introdotti al principio cardine dell'ordinamento giudiziario statunitense, che, a differenza di quello italiano, considera la presenza dei propri pari, cioè i giurati, un elemento sostanziale di garanzia. Agli occhi dei più, ciò potrebbe sembrare perfino ridicolo: di certo dovrà apparirlo agli occhi della casta della magistratura italiana, talmente accecata dal protagonismo da non essersi neppure accorta che le riforme improvvisate dalla pantomima covidiota in poi avranno l'inevitabile esito di sostituire i giudici umani con quelli cibernetici (il mito della giuscibernetica, che sembrava sull'orlo del dimenticatoio e invece ritorna prepotente). 
 
In questo caso, però, non si segue nè la traccia thriller, come erroneamente descritto da Filmtv, nè quella del dramma giudiziario: è un film drammatico e basta. Il dramma è il dilemma interiore, che sembra sottotraccia, ma affiora sempre più prepotentemente, fino a rubare completamente la scena al processo vero e proprio. La politica collegata alla giustizia è pure menzionata, ma resta relegata allo sfondo, e non sembra determinare realmente "il" problema che il regista ha voluto affrontare.
 
Il leit motiv è il dubbio: quello del protagonista, dei giurati, dell'ex poliziotto, e perfino del procuratore, ma anche della moglie del protagonista, mentre su tutto aleggia naturalmente il dubbio per eccellenza, quello "ragionevole" processuale. Anche il finale sembra fugare ogni alternativa: con un dubbio sfumano le immagini, verso i titoli di coda.
 
Guai a non avere dubbi! Guai a viaggiare con i paraocchi, a non mettere in discussione l'autorità o le presunzioni. Guai a lasciarsi andare alle conclusioni facili e scontate.
 
Ci sembra che il regista abbia voluto adoperare la metafora del giurato come riferimento al nostro essere quotidianamente spettatori e giudici di chi (e di ciò che) ci circonda: ma che succede, quando da spettatori diventiamo protagonisti? Siamo pronti a misurarci con lo stesso metro che adoperiamo per gli altri? O preferiamo la via facile? Ed ecco, quindi, che l'immedesimazione qui la fa da padrona, sollecitando in tutti i modi chi guarda a mettersi al posto di chi agisce, e, quindi, porsi la fatidica domanda: "Io che farei al posto suo?". Giusto e sbagliato, più che agli occhi della giustizia, interessa qui misurarli agli occhi del protagonista, che è noi, mentre noi siamo lui.
 
Lascia perplessi il paradigma morale conclusivo, chiaramente a digiuno di filosofia del diritto. Altrochè il Pantalone di goldoniana memoria, nella cui scelta riecheggia il proverbiale fiat ius et pereat mundus! I fasti dell'espansione dei diritti sono ormai un ricordo sempre più sbiadito, dietro l'instupidimento generale che presenta leggi sempre più meschine, manipolatorie e incomprensibili, strumentalizzando buoni sentimenti e populismo, in nome di norme il cui unico fine è eliminare le libertà. Ed ecco che questa - sia pure nobile - riflessione su morale e giustizia risulta assai pressapochista e superficiale. Da un lato abbiamo la fotografia di una società cinica ed egoista, pure nell'autocompiacimento del proprio buonismo (di facciata e largamente eteroindotto), ove vige il proverbiale mors tua, vita mea. Dall'altro lato, ideali stereotipati e alquanto partigiani.
 
Ottima prova degli attori, e regia sempre rigorosa e priva di sbavature, che merita un plauso per il regista, che continua ad arricchire di opere ragguardevoli un panorama cinematografico sempre più misero e avvilente. Quando questo autore ci avrà lasciati, saremo più poveri. Siamo comunque lontani anni luce dal miglior Eastwood, e tutto l'affetto che gli tributiamo non può farlo dimenticare neppure per un istante. Mettiamola così: ci auguriamo che Clint possa regalarci ancora altri capolavori, che possano superare quest'opera gradevole e di valore, ma non all'altezza del mito del regista.
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