Regia di Clint Eastwood vedi scheda film
È un Clint Eastwood delicato quello che dirige un film complesso e problematico come Juror #2. La sua presenza quasi non si sente (né si vede). Si avverte. Si avverte negli scarti, nelle pulizie, nell’essenzialità ormai accertata come segno distintivo del suo classicismo. Ma rispetto ai film precedenti – a parte l’inguardabile The 15:17 To Paris (2017) per il quale resto dell’idea che non l’abbia diretto – quest’ultima fatica ha un taglio cinematografico diverso, molto distaccato, quasi prettamente esecutivo.
Un film in punta di piedi che parte da 12 Hungry Men (Lumet, 1957) e arriva a Runaway Jury (Fleder, 2003) passando per tanti legal drama che lo hanno preceduto e che in un qualche modo hanno cristallizzato se non il concetto di America, almeno quello di Giustizia, ma quella giustizia affidata alle mani di un sistema imperfetto quale è la democrazia americana.
Questa semplicità narrativa e visiva non fa però rima con inefficacia o anonimato perché Eastwood, il più “socialista” dei repubblicani, si affida ai motivi del suo film per veicolare la riflessione di fondo. Chi incarna lo spettatore in Juror #2? Potrebbe essere il protagonista a cui dà vita Nicholas Hoult – tra l’altro in parte e azzeccato – oppure l’avvocato dell’accusa in corsa per il posto di procuratore generale in Georgia (guarda caso, proprio la Georgia) che da convinta castigamatti inizia a farsi diverse domane. Oppure il vecchio poliziotto in pensione che ne ha viste così tante da avere seri dubbi sulla verità tanto sbandierata dal pubblico ministero. Oppure, oppure e oppure. Oppure, infine, potrebbe essere quell’anziano testimone oculare che non vede davvero bene la scena del crimine e addita pericolosamente un giovane innocente come brutale assassino innescando reazioni a catena irrefrenabili.
E se nell’ambiguità dello sguardo dell’anziano testimone ci fosse, in messa in abisso, l’impossibilità di vedere e quindi di interpretare il reale? Pensiamo all’attentato a Donald Trump: siamo tutti davvero convinti di quel che vediamo? Eppure il cinema ci ha insegnato che strabilianti messe in scena riescono meglio nella realtà che agli sceneggiatori di Hollywood. Dopotutto, in epoca digitale, in epoca social, dove fake news, deep fake, AI, fasulla libertà di pensiero attraverso le chat, sono l’unico strumento – ahinoi – di conoscenza, è ancora possibile “vedere” la realtà? Coltivare quindi la verità?
Ma Juror #2 non è solo cinema che indaga la società americana indagando lo stesso cinema, il mezzo indagatore, è anche un film che punta il dito su tante piaghe dell’attuale società americana in cui “a volte la verità non è giustizia”, come sentenzia Hoult alla fine della pellicola lavandosi la coscienza davanti a una Toni Collette sempre più svuotata e accartocciata su se stessa e su quella emblematica panchina – locus tragicus del cinema americano, emblematico quanto epigrafico. Pensiamo ai membri della giuria, ognuno con i suoi difetti, le sue tare, i suoi problemi quotidiani: a loro è affidata la vita di un uomo o di una donna. Eastwood incolpa il pregiudizio – e quindi il difetto di visibilità – in cui incorrono i personaggi (e l’America intera): dalle donne che additano l’uomo violento in quanto uomo, all’afroamericano che addita l’uomo bianco in quanto bianco. Non è una difesa del white power, vi prego, è la visione umanista e superiore di un regista che più di tutti, lungo l’arco della sua carriera, ha visto e criticato ogni moda intellettuale, ogni politicamente corretto che prende il sopravvento sul buon senso, ogni imperialismo intellettuale che scansa il pensiero critico e divergente.
Se alla fine non siamo di fronte a un capolavoro poco ci manca. Ci manca forse un po’ più di azione e concitazione; un po’ più di thrilling e suspence; un po’ più di whodunit, un colpo di scena elettrizzante, un cattivo contro cui tendere l’azione – anche se il conflitto è tutto interno al protagonista. Ci manca forse un po’ di tutto questo, ma forse, ripeto forse, è proprio la pulizia operata da Eastwood su tutti i motivi più ricorrenti del genere processuale a dare dignità umana ed etica a una storia, a un conflitto interno, a un’interrogazione morale figlia del disfacimento sordido e quasi irreversibile della società americana o occidentale tutta.
Eastwood, a 94 anni, sembra volerci dire che abbiamo tutti bisogno di andare più piano, di sbrogliare la matassa, di preferire un pensiero lineare a quello ingarbugliato e complesso dell’attuale società frammentata, atomizzata, ipermoderna, dispiegando il grande rovello etico del suo film in una storia lineare, semplice, delicata, raccontata in punta di piedi.
Non ci sono commenti.
Ultimi commenti Segui questa conversazione
Commenta