Regia di Clint Eastwood vedi scheda film
Parafrasando un passo dell'"Anticristo" di Nietzche, Justin Kemp (Nicholas Hoult), ha scrutato a lungo il proprio abisso, che quest'ultimo ha guardato dentro di lui, facendo riemergere il rimosso dalle profondità dell'inconscio.
A 94 anni Clint Eastwood, trova ancora modo di annichilire i propri detrattori, dopo le critiche negative mossagli per "Richard Jewell" (2019) e "Cry Macho" (2021), tornando alle radici del proprio cinema. La giustizia come elemento per niente assoluto, l'impossibilità di una redenzione, credere in ciò a cui si da valore e sopratutto lo sguardo rivolto al "Mystic River" interiore di ogni individuo, tratteggiando un'affresco sociale dove nessun individuo risulta innocente, neppure il "limpido" giornalista Justin, in cui dovrebbe rispecchiarsi lo spettatore.
"Giurato Numero 2" (2024) parte da un assunto stringato nella sua secchezza - "Era lo scorso Ottobre. Stava piovendo ed ho urtato qualcosa..." -, Eastwood porta la narrazione all'essenzialità della parola, la quale presto si tramuta in un'asciuttezza stilistica, quanto di scelte conseguenti.
Kemp è innanzi ad un bivio sin da subito tematizzato; confessare la propria colpevolezza nell'omicidio della giovane Kendall, oppure in quanto giurato mirare a far condannare James Synthe (Gabril Basso), il compagno della donna con precedenti penali alle spalle, sviando così ogni sospetto ulteriore su altre piste.
Cos'è giustizia? Una dea bendata con bilancia (equilibrio, ponderatezza ed equità) e spada (forza punitiva). Sospesa tra due opposte esigenze, la giustizia non necessariamente diviene verità in azione, come enunciato dal pubblico ministero (Tony Colette).
Semmai esiste una verità processuale, talvolta incongruente con il fatto storico. Il sistema è imperfetto, ma è il migliore a disposizione.
Tipica sentenza assolutoria della democrazia americana, incapace di ammettere che la presenza dell'errore cagiona la distruzione (spesso anche fisica) della vita di un innocente.
Clint Eastwood svia ogni ingombrante paragone con la "Parola ai Giurati" di Sydney Lumet (1957), non rinchiudendosi nelle quattro mura della camerica di consiglio dei 12 giurati. Il processo contro Synthe, divene il processo interno di Justin Kemp, nel duplice ruolo di imputato e giuria.
Immagini rimosse del passato, si affastellano con una ricostruzione personale dell'avvenimento delittuoso a cui ha preso parte senza nemmeno accorgersene.
Prima del giusto o sbagliato, esiste un dato fattuale certo ed inoppugnabile; il cadavere di Kendall, a cui è stata portata via la vita e tutto ciò che sperava di poter ottenere vivendo. Lo spettatore si ritrova nella penosa situazione di doversi identificare in Justin, chiedendosi cosa farebbe tra la penosa alternativa della confessione o condanna con la speranza di rimuovere il trauma.
Questo gioco del regista, porta ad un'immedesimazione fastidiosa e per niente straniante, ma assolutamente sensata. Il processo di "common law" non è mai neutrale; i dodici giurati percepiscono ed osservano la realtà giudiziaria secondo i propri sensi, traendone un verdetto, basato su esperienze pregresse ed antipatie personale, per nulla imparziali.
Essere estraneo ad un accadimento, non fa rima con il non avere un proprio giudizio, basato su bias cognitivi alteranti.
Il processo di "common law" affidato ad una giuria ampia e variegata di pari, risulta totalmente anacronistico ed anti-equo. in quanto si basa sull'interpretazione di fatti da parte di soggetti, spesso per nulla conoscitori della materia penale o della legge.
La stessa figura del pubblico ministero, risulta ammantata da logiche del tutto politiche, nel dover conseguire dei risultati processuali, secondo le attese della comunità. Si vuole un colpevole a tutti i costi, quindi cosa meglio di un femminicidio per dare addosso al compagno di lei da parte dell'opinione pubblica? Eastwood partendo da premesse consolidate del "dramma legale"; varca verso territori inesplorati, in cui la costruzione alla "Rashamon" di Akira Kurosawa (1950), dipinge una società parcellizata nei suoi punti di vista, esplorati da una regia essenziale ed invisibile nel tratteggio anti-spettacolare dello scavo psicologico e per questo la direzione di Eastwood si conferma grande, sulla scia delle idee registiche di Wilder.
Un passato di grande dolore tumulato, ritorna con grande forza preponderante alla carica per presentare il conto all'ignareo reo. Il regista evita nello sviluppo, ogni sensazione di già visto, sovvertendo le aspettative dello spettatore, che non avrà alcuna catarsi interiore.
Semmai dubbio, angoscia e smarrimento. Nessun colpevole, perchè sono tutti colpevoli. All'insegna di un'esistenza precaria, pronta a frantumarsi del tutto, in un momento di quotidiana normalità.
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