Regia di Howard Hawks vedi scheda film
Il vero testamento artistico del grande Howard Hawks.
Per Howard Hawks è giunto il momento di tirare le fila di quarant’anni di lavoro: c’è aria di congedo, di (pen)ultimo giorno di scuola. Come testamento cinematografico sceglie due film di genere western: questo, che è il vero punto fermo posto alla sua opera, e il modesto Rio Lobo, appendice non strettamente necessaria. Nella terra di nessuno della frontiera, Hawks pare situare il luogo di approdo ideale per i suoi personaggi, mezzi eroi e mezzi filibustieri, con un cuore e una voglia di spaccare il mondo a metà grande così.
El Dorado si inscrive nel solco di quei western nostalgici di fine impero di quegli anni, gravidi di decadenza. Hawks coglie l’occasione per fare un corpo unico delle due nostalgie - tramonto del western e canto del cigno della sua carriera, ma potrebbero esser tre se ci mettessimo dentro anche il lunghissimo addio di John Wayne.
La filiazione diretta da Un dollaro d’onore è evidente, quantunque sia inappropriato ed ingeneroso trattare il presente film come un semplice rifacimento. Piuttosto, direi che nell’improbabile Rio Lobo il gioco mostrerà la corda (per la terza volta Hawks riproporrà lo schema “buoni asserragliati nella prigione insieme al cattivo” nell’ambito di un filmetto infelicemente cruento). Ma qui ancora regge bene, con un Hawks più melanconico, un’atmosfera notturna e insalubre diversa da quella giocosa del film del ‘59 (credo che per l’intera ultima ora di film non si veda più la luce del giorno), protagonisti stanchi, carichi di cicatrici e dei segni del tempo, che esibiscono i loro difetti e vizi senza pudori – anche se solo per dovere di copione: ad onor del vero, Wayne , malgrado il fisico invero un po’ imbolsito, scoppia ancora di salute.
I leitmotiv sono gli stessi di sempre: l’amicizia autentica, l’eroismo dispensato con tranquillità olimpica (ma con una fifa da cani sotto le facce da poker) e il coraggio che abbatte anche le barriere più invalicabili, come l’età matura, o l’essere donna. Non è poi così frequente che un’esponente del gentilsesso metta fuori combattimento quella vecchia quercia di John Wayne! E nemmeno che poi quella stessa donna gli salvi la pellaccia. Proprio le donne, malgrado l’epica al testosterone delle storie di Hawks, nei suoi film sono molto spesso coloro che risolvono le situazioni impervie. Ciò succedeva certamente in almeno due suoi western precedenti (Il fiume rosso e Il grande cielo), ma in tanti altri suoi film è la controparte femminile quella che dimostra di portare i pantaloni, con gli uomini a fungere al più da manovalanza.
Hawks si diverte in quest’ultima fase della sua carriera a piazzare delle autocitazioni per far sospirare i suoi aficionados. Come ne Lo sport preferito dall’uomo veniva replicata al millimetro la famosa sequenza di Susanna del vestito che mette in mostra le grazie femminili della Hepburn, qui viene ricalcato con la carta carbone l’esito finale de Il grande sonno: il nemico esce dalla porta per primo al posto dei nostri, e i suoi compari, appostati fuori, lo fanno secco per sbaglio. Non manca nemmeno l’occasione per ammirare il Duca, John Wayne, in una delle sue tante partenze che atterriscono le donne che rimangono sull’uscio a rimpiangerlo e ricordarlo: è una partenza all’ora del crepuscolo, con un paesaggio da infarto sullo sfondo incorniciato dalle montagne e dai cactus. Ma stavolta l’eroe tornerà, per mettere radici.
Il tramonto, la notte, ma anche il preferire gli spazi chiusi rispetto alle vallate a perdita d’occhio dei suoi primi due western, sono simboli che rimandano alla sopraggiunta maturità: il lungo percorso degli eroi, di tutti gli eroi che sono qui metaforicamente rappresentati e fatti rivivere – i piloti di Arcipelago in fiamme e di Avventurieri dell’aria, i soldati de Le vie della gloria, il Dunson de Il fiume rosso - è giunto a compimento, è il momento della pace.
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