Regia di Claire Denis vedi scheda film
Uomini-viaggio, inesistenze elementari. Siamo all’entropia.
…on se croit d'amour
on se croit féroce enraciné
mais revient toujours
le temps du lien défait
on se croit d'amour
on se sent épris d'éternité
mais revient toujours
le temps du lien défait…
Camille, ragazzo creolo della Martinica, canta in un locale parigino per omosessuali Le lien défait, una delle celebri ballate di Jean-Louis Murat.
http://www.youtube.com/watch?v=jsKNShN72TU&feature=share
Il fascino androgino del ragazzo sprigiona una forte carica sensuale nella penombra azzurrina, mentre si muove lento, fasciato da un lungo abito aderente che gli lascia le spalle nude e scivola sempre più giù al movimento delle braccia, avvolte in lunghi guanti scuri.
Sguardi magnetizzati intorno, uomini immobili in trance, ierofania della divinità che si concede allo sguardo e all’udito, inattingibile, e infine scompare.
Improvviso, nel quadro successivo, piomba il giorno all’orizzonte di uno skyline urbano ripreso da un terrazzo condominiale. La mdp è appoggiata sul muretto e il campo visivo ne ingloba uno spigolo di cemento grigio.
Controluce di grattacieli in lontananza, il nastro di una tangenziale si perde nelle brume opache del primo mattino, lo spazio è un aggregato di forme indistinte e rumori attutiti del traffico.
La notte insonne e sognante sfuma, con i fantasmi di una realtà illusoria.
E’ un momento chiave per definire un film policentrico, che procede per piani paralleli continuamente sfuggenti, mentre lo scopo narrativo è negato fin dal suo apparire, nella prima sequenza.
Un elicottero sorvola la città. Nella cabina di guida i due piloti si coinvolgono in una risata infinita, di cui ignoriamo la ragione e che sparirà con loro al cambio di scena. Nulla che leghi l’incipit al resto del film, solo lo straniamento, quel senso di non finito, non detto, non appagante che stringe alla gola meglio di un finale terrorizzante.
E’ quel che vuole Claire Denis, dare forma visiva a insoddisfazione e mancanza, il suo teorema di base, la sua istanza politica forte.
Frazionare l’attesa di una soddisfazione finale significa annullarla.
Il godimento, l’adagiarsi appagato dello spettatore su un esito, quale che sia, pur che sia, è out, polverizzato dal frazionamento molecolare di storie che a tratti sembrano ricondurre ad un centro per perderlo subito dopo.
Linguaggio del cinema depurato da ogni sovrastruttura, procede nella sua grammatica essenziale, pre-verbale, dando forma alla materia grezza e alle infinite sfaccettature della vita.
le temps du lien défait
e quel che era un legame, un attimo prima, rivela la sua inconsistenza, il principio del piacere continua a dominare il mondo, ma il piacere totale, continuamente rimandato, è irraggiungibile.
Oggetti parziali di piacere sono continuamente lungo la strada, se-ducono, hanno questo scopo, e l'atto del desiderare diventa esso stesso appagante, allontanando da ogni possibilità di effettiva realizzazione del desiderio.
E’ l’intrigante lettura che del film fa Todd McGowan in “Resistere alla tentazione di godimento finale”, analisi quanto mai illuminante per entrare in quel processo di straniamento che la visione suscita e capirne la portata.
Tre personaggi, immigrati dall’ est e dal sud del mondo, Daiga (Yekaterina Golubeva), Camille (Richard Courcet) e Théo (Alex Descas) si sfiorano muovendosi in peregrinazioni continue, a piedi, in macchina, su e giù per scale e pianerottoli, interni ed esterni chiusi e aperti da porte, vetrate, ascensori. Non sembrano perseguire uno scopo reale, anche se lo dichiarano, come Theo, che vuol tornare in Martinica con la bambina, ma Mona (Béatrice Dalle) la moglie bianca, è contraria all’idea.
Anche di Daiga capiamo da qualche telefonata le ragioni dell’arrivo dalla Lituania, vuol fare cinema. L’unico a non avere progetti è Camille, dedito alla sua attività di marchettaro e serial killer di vecchiette.
Lo spazio è anonimo, solo uno scorcio in cui riconosciamo Montmartre, inconfondibile 18 ° arrondissement di Parigi appena sbirciato. In realtà si potrebbe essere dovunque, come in aria, nell’abitacolo di un elicottero.
Quel che conta è che sia città, spazio in cui l’invisibilità è la condizione costante degli abitanti della banlieu. Presenze effimere, abitano, non sono, appaiono e scompaiono senza lasciare traccia.
Neppure le morti violente lasciano tracce emotive, eppure ne vediamo una in atto durante la sua esecuzione.
Niente che faccia somigliare il film ad un noir, un thriller, un poliziesco, pur avendone tutti gli ingredienti.
J'ai pas sommeil rompe con tutte le convenzioni del genere per confezionare un modello nuovo, capace di fare del cinema un trait d’union, il mezzo che manca al linguaggio comune per dire la vita, le sue menzogne e le sue mezze verità.
I tre personaggi e il loro coté di emarginazione sono pura sopravvivenza, nessun appello esibito né rivendicazioni da fare. Assimilati da una logica capitalista al resto della società, accettano il vuoto della loro vita in attesa che il miraggio, continuamente fatto balenare e continuamente spostato in avanti, diventi reale.
Ma ciò non è destinato ad avvenire. Non rientra nella logica del potere capitalista.
Piccoli oggetti di piacere lastricano la loro strada, come quella di tutti. Su quella si va avanti.
Daiga, Camille e Theo sono i nuovi eroi di stracci di un tempo in cui la reificazione dell’individuo è diventata irreversibile. S’investe sul piacere totale, irraggiungibile, e ci si crede appagati dagli oggetti parziali sparsi a piene mani ovunque.
Camille strangola le sue vecchiette per derubarle di qualche banconota e vecchia collanina di perle, e sembra morire di noia l’attimo dopo.Daiga ha solo un attimo di ribellione, poi si riempie le tasche delle banconote di Camille e sale fumando sulla sua sgangherata macchina russa pre-perestrojka, come nella scena iniziale. Nel frattempo Camille ascolta senza reazioni, solo annuendo, l’impressionante elenco che il commissario gli fa delle sue vittime.
Theo continuerà a pensare alla Martinica come al giardino dell’Eden, e intanto fa dormire la bambina in terrazza per abituarla alle stelle dei Tropici.
Uomini-viaggio, inesistenze elementari. Siamo all’entropia.
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