Regia di Marco Ferreri vedi scheda film
Di Buñuel, questo Ferreri della prima ora riprende lo spirito affettuosamente antiborghese, che ritrae con amorosa passione un mondo di cui contesta impietosamente le magagne; dal maestro surrealista si distingue, invece, per la rinuncia al simbolismo e la scelta – che caratterizzerà gran parte della sua filmografia - di fare della fisicità il punto di forza del proprio registro espressivo. Il male è più che mai tangibile e disturbante quando attacca il corpo: in questo racconto di Rafael Azcona, l’handicap motorio è la manifestazione visibile di una sofferenza interiore che, per il povero figlio di Don Vicente, è il marchio della decadenza storica e morale di una casta, mentre per l’anziano Don Anselmo (che all’invalidità ambisce) rappresenta uno svantaggio sociale concreto ed evidente che, al contrario della solitudine, induce gli altri alla compassione e garantisce, a chi ne è colpito, il diritto all’assistenza. In entrambi i casi, la carrozzella è il segno di una paralisi della società, che coltiva un benessere sterile, orientato alla materia e all’esteriorità, ed è disattenta nei confronti dei veri valori umani. Il mondo che fa da sfondo a questa storia non ignora i diversi, però guarda ad essi come curiose eccezioni, ad esseri a cui spetta uno status particolare: esemplari interessanti, però non necessariamente degni di essere considerati persone a tutti gli effetti. Per questo motivo, i loro singolari casi si prestano più che mai ad essere sfruttati, cinematograficamente, come strumenti di provocazione. El cochecito prefigura anche, sia pur timidamente, attraverso la vicenda del protagonista - che si sente trascurato dalla famiglia e per questo si finge paralitico - la perversione di una società ricca che insegue assurdamente il degrado, l’annientamento, la negazione, con una forma di nichilismo autolesionista che, in molte sue opere successive, Ferreri applicherà alla sfera istintuale, e raggiungerà ne La grande abbuffata il massimo grado di voluttà suicida.
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