Regia di Lars von Trier vedi scheda film
Pioggia. Pioggia che batte fittamente sui vetri del lugubre stanzone tagliato da lame di luce spiovente che irrorano i volti di sinistri bagliori. Un ambiente svuotato di ogni parvenza umana, contrassegnato dall’ombra d’una disfatta non ancora assorbita, pervaso da un’immota lentezza che non lascia alcun scampo ad afflati di redenzione ma sembra reiterare all’infinito il pesante retaggio d’una maledizione che tuttora aleggia col suo soffio distruttore alle spalle di un popolo eletto a razza dominante. Fantasmi di un rovinoso conflitto che aleggiano ovunque nell'aria, vomitando loro ributtanti rigurgiti su ignari passeggeri di un treno che si fa strada a piccoli passi sulla via della desolazione.
Lars Von Trier indirizza il suo cinema senza tempo e senza età nei meandri di un ipnotico itinerario in direzione dell’ignoto più fitto, confrontandosi con un’inedita misura stilistica all’ombra di un revival tardo espressionista che investe di una parvenza di tetraggine l’intera pellicola. Una sorta di atavica stanchezza strettamente connessa alle viscere stesse dell'essere umano che vaga su e giù per i vagoni come un fantasma vivente. In tal modo l’incedere della storia avanza con ritmo blando alla stessa stregua di un treno post bellico carico della stanchezza di una intera generazione deliberatamente votata alla disfatta, in un collage di emozioni e vibrazioni al ralenti e di sporadici sprazzi coloristici che di tanto in tanto rivestono della loro presenza l’opprimente tetraggine delle immagini intinte in un bianco e nero disperato. Il regista accompagna il vagare fantasmatico del protagonista con la monotona ed ossessiva cadenza di una voce off che invade le smorte sequenze di un alone marcatamente ipnotico, condizionandole ed ammantandole di connotazioni oniriche ondeggianti tra incubo e realtà, gettando di continuo una luce sinistra sulla sua effettiva consistenza.
Gli esseri che animano la pellicola con la loro presenza vanno accumunati a viventi cariatidi di un’epoca storica spazzata via dal vento della storia. Entità disorganiche che si muovono ed interagiscono tra loro illudendosi di rimettere in moto un ciclo vitale giunto al suo capolinea, ignari automi predestinati al macero. Il regista sembra rivestire di un’insolita vena grottesca improntata a toni altamente seriosi e realistici alcune situazioni di precaria instabilità, stemperando la tragicità delle scene con leggeri ed impercettibili tocchi d’ironia che scivolano via inascoltati, dopo aver impregnato leggermente di sé la greve ed opprimente atmosfera latente nell’aria.
E l’ombra di Dreyer pervade la storia all’interno con ripetute infiltrazioni che grondano la loro umida sostanza umorale nei più reconditi recessi, invadendo le statiche coscienze individuali di un senso del peccato da espiare in turbinose visioni di ROSSO sangue che scaturisce dalle viscere stesse dell’intima materia filmica.
E tra surreali sprazzi onirici accompagnati ad un realismo simbolico non esente da influssi kafkiani, il regista conduce la vicenda ad una conclusione spiazzante, imprevedibile, a prova di bomba ad orologeria, tra deflagranti sussulti di disperazione che fanno di questa pellicola un vero e proprio documento sull’ineluttabilità del cammino umano irrimediabilmente precluso al sentiero della redenzione, disgregato nella nullità delle flebili luci in estinzione delle vite umane. E pervenuto al suo eterno riposo in fondo al fiume della memoria.
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