Regia di Ingmar Bergman vedi scheda film
L'amore è una gran bella truffa. A questa inappellabile sentenza giunge Bergman, al termine di uno dei suoi film più anomali. Tutto lo spietato rigore del Maestro di Uppsala al servizio di una gelida dimostrazione dei danni causati dalla fallace infatuazione sentimentale. Ciò che resta di una utopica fuga d'amore è solo uno sbiadito ricordo, da opporre ad un presente di angoscia e solitudine. L'estate come isola di illusoria felicità nell'eterno inverno dell'esistenza, tema già approfondito con risultati più brillanti in altre opere giovanili dell'autore ("Un'estate d'amore", ad esempio), torna qua declinato nella forma di un lirismo sensuale, dove la natura incontaminata e il seducente corpo di Harriet Andersson (alla quale si deve gran parte della sostanziale riuscita del film) si alternano e si compenetrano per materializzare il concetto stesso di estasi erotica. Il "desiderio", si sa, è tuttavia fugace, come uno spirito che spazia da un corpo all'altro: e così, alle primissime superabili difficoltà tali da impedire uno stile di vita borghese, accade che l'anti-eroina Monica finisce per buttarsi fra le braccia del primo stronzo che capita al bar, alla faccia di tutte le ridicole promesse/speranze di una vita stabile e serena con quello che, in realtà, era solo "uno dei tanti". Bergman non ha pietà: gira il piano-sequenza che rivela il flirt di Monica col bulletto di turno (definito da Godard il "più triste di sempre"), isolando nel buio più totale il celebre sguardo in macchina di Monica: è la condanna, crudele ma inappuntabile, ad una vita di sbando, sofferenza, sessualità casuale ed effimera affettività. Non va meglio all'uomo, encomiabile nei suoi sforzi di mandare avanti la baracca, ma anch'egli condannato a vivere di stenti e ricordi, con la zavorra di un figlioletto che non conoscerà mai l'amore paterno, men che meno quello materno. Bergman supera se stesso nella rappresentazione filmica dell'egoismo umano: quando il giovane padre va a vedere il neonato all'ospedale, la mdp di sofferma per diversi secondi, con un lento e discreto zoom, sul suo volto spaventato. All'insegna di una ostinata misoginia, Bergman compone un'opera diseguale, meno intensa dei suoi capolavori, ma ricca di spunti fondativi per la modernità cinematografica. "Monica e il desiderio" soffre di rozzi schematismi nella rappresentazione dell'inferno lavorativo e familiare, nonchè dell'ostilità sociale, che ingabbia i due giovani "amanti"; però indovina anche alcune sequenze davvero "avanti" rispetto all'epoca: su tutte, l'assalto del tutto immotivato di un silente e misterioso "intruso", figura quasi bresson-iana come incarnazione del Male corruttore e disgregatore. Al di là degli evidenti limiti drammaturgici, resta un'opera di grande spessore, il cui lascito maggiore sui posteri va rinvenuto nella dilatazione dei tempi, nella morale cinica e disincantata, e soprattutto nella spregiudicatezza delle scene erotiche.
Non ci sono commenti.
Ultimi commenti Segui questa conversazione
Commenta