Regia di Ingmar Bergman vedi scheda film
L’ amore è una smorfia che termina in uno sbadiglio. (Ingmar Bergman)
E’ un Bergman insolito, almeno per quel periodo questo En lektion kärlek – Una lezione d’amore per l’Italia (l’opera che nella sua filmografia, viene immediatamente dopo l’efficace studio sulla psicologia di una giovane donna di Monica e il desiderio che tanto intrigò Godard,e il tristissimo, cupo e pessimista Una vampata d’amore - Gycklarnas afton [Sera di un saltimbanco] in originale, definito dalla critica francese come la più perfetta delle opere “nere” del regista). Insolito dunque, ma tutt’altro che distante dalle tematiche di fondo del suo cinema che poi verranno sviluppate in maniera davvero magistrale nelle sue successive pellicole, ma delle quali intravediamo già qui, e ben piantate nel terreno della sua fertile ispirazione, le radici: se mai ce ne fosse bisogno insomma, la conferma che Bergman non ha mai rinunciato a interrogarsi o a porre le sue scomode domande, nemmeno quando ha lavorato sul registro leggero come in questo caso
.
Per rendersi conto delle tante analogie che ci sono, basterebbe soffermarsi infatti sul dialogo tra padre e figlia che preannuncia in qualche modo alcune situazioni poi riprese ed ampliate in Come in uno specchio, o tenere nella giusta considerazione l’ostinata insofferenza della giovane Nix verso l’ipocrisia, la sua ribellione adolescenziale contro la società, la situazione familiare e la sua stessa natura di donna, tutte tematiche che si riallacciano e rimandano con qualche variazione, al già citato Monica e il desiderio (accomunati entrambi pure dalla stessa, straordinaria interprete).
Non c’è soltanto questo però, ma molto di più se si considerano anche le riflessioni meditative sulla morte che fa il padre di David (che anticipano quelle che verranno riproposte con maggiore drammaticità conflittuale in parte ne Il settimo sigillo, ma soprattutto dal “vecchio” Isak Borg ne Il posto delle fragole), o la contraddittorietà del ginecologo che capisce davvero molto poco delle donne,come gli fa ben rilevare Suzanne quando l’uomo vuole interrompere la loro relazione adulterina: “Disgraziato! Pretendi di essere un ginecologo e non hai mai capito una donna in vita tua. Sei uno che per tutta la vita ha guardato le donne in una prospettiva capovolta”, ilche rimanda direttamente al pensiero dello stesso regista e alle sue affermazioni categoriche: l’uomo non sarà mai adulto – era solito dire – perché non “partorisce”, è vanitoso e non vuol mai “perdere la faccia” davanti alla donna, la virtù della quale però è solo un’invenzione degli uomini.
Un film che inizia ancor prima dei titoli di testa con una ironica voce fuori campo, il suono di un carillon e tre pupazzi che lentamente piroettano seguendo il ritmo della musica e si conclude con l’irruzione improvvisa di un giovane Cupido pronto a scoccare di nuovo i suoi dardi, ha già fornito precise indicazioni sulle modalità (e il linguaggio) scelte per la rappresentazione delle cose: Bergman questa volta infatti si diverte e fa divertire (ma anche in questo suo abbracciare i toni sapidi della commedia pur rimanendo “serioso” nel profondo, si conferma insuperabile Maestro), consapevole che si tratta di un gioco, almeno in superficie. Si racconta insomma anche qui di una gravissima crisi coniugale, ma questa volta lo si fa con il sorriso sulle labbra e una deliziosa levità di tocco.
Se le situazioni sono simili a quelle di certo cinema di consumo americano anche d’autore, e lo svolgimento sembra rifarsi al filone della commedia sofisticata degli anni d’oro, che è poi quello insuperato e insuperabile dei Hawks, dei Wilder o dei Cukor tanto per intenderci, per “additare” addirittura a Lubitsch, i veri riferimenti ispirativi sono invece quelli che prendono linfa vitale dal vaudeville e dalla ben rodata tradizione del teatro comico francese (ma rivisitato attraverso l’esperienza di quello svedese), e non è certamente un caso che poco prima Bergman avesse curato la regia teatrale di Saga(un testo portato anche sulle scene di Parigi scritto dal suo omonimo Hjãmar Bergman), con il quale si possono rilevare molte affinità, e che nello stesso anno in cui portò a termine le riprese del film, avesse messo in scena al teatro di Malmö l’operetta di Franz Leár/Victor Léon e Leo Stein La vedova allegra(tratta dalla commedia L’attaché d’ambassadescritta da Henri Meilhac nel 1861) e un balletto intitolato Giochi crepuscolari.
Il film si potrebbe insomma definire una intelligente, divertita variazione – parlo ovviamente di “forma”, più che di corrispondenze del racconto - che anticipa di quasi due anni Sorrisi di una notte d’estate (premiato a Cannes “per l’umorismo poetico che lo pervade” che fu poi l’opera che impose prepotentemente il regista all’attenzione del pubblico e della critica di tutta Europa) del quale potrebbe esserne persino considerato una interessante, riuscitissima prefazione (o meglio ancora, la prova generale) anche se poi come spettatori, noi qui in Italia lo abbiamo dovuto visionare con molti anni di ritardo, e quindi in differita.
Non tutto ovviamente funziona alla perfezione e a volte le scenografie sono approssimate. Trasatti per esempio, ci ricorda che nelle scene sul treno lo scompartimento in cui si muovono gli attori è più simile a una immobile quinta teatrale che a una ricostruzione fedele e cinematograficamente attendibile,anche se subito dopo sottolinea, citando Nino Ghelli (Due film di Bergman, “Rivista del cinematografo” n. 2, 1961) che se la prima impressione che si riceve è quella di una inconsueta sciatteria formale, viceversa poi a un esame più approfondito, appare invece evidente che anche sotto il profilo formale il film è costruito con estrema attenzione e sorvegliatezza e che fa parte del programma dell’autore la rinuncia al conseguimento di effetti di particolare vigore figurativo per conferire all’opera un’atmosfera vagamente familiare e dimessa.
Il ritmo è spigliato, disinvolto e pieno di situazioni comiche quando non addirittura grottesche (le ire di Marianne, la scena nella taverna o il pranzo di nozze) tipico appunto del vaudeville, esattamente come lo è il soggetto che ne rispetta le regole e il funzionamento: ambiente borghese, un marito (David) che tradisce la moglie, (Marianne) che lo sorprende con l’amante (Suzanne) e decide di divorziare per risposarsi col suo ex-fidanzato (Carl-Adam) e dove il lieto fine è assicurato (la riconciliazione in treno).
Non l’autore, non i suoi personaggi, ma la vita con i suoi piccoli trucchi e le sue complicazioni è la maestra che impartisce questa lezione.
Come si può ben intuire da queste brevi note, Bergman ci pone di fronte a una situazione analoga a quella dell’ultimo episodio di Donne in attesadilatandola a un’ora e mezzo di spettacolo (per altro ripresa e sviluppata dagli stessi attori). E’ insomma di nuovo la tipica crisi delle coppie bergmaniane che esplode sempre e inesorabilmente, dopo i primi anni di matrimonio, qui studiata e analizzata durante un allegorico viaggio in treno infarcito da cinque flashbacks attraverso i quali vengono ricostruite le differenti e complesse dinamiche familiari che dal passato felice dell’inizio del rapporto, porteranno poi alla situazione finale di rottura.
Nel primo, David in macchina, ripensa al suo incontro con Suzanne, che è stato poi la causa dell’abbandono da parte di sua moglie; nel successivo, lo seguiamo invece nel suo viaggio in treno mentre ripensa ai figli e a ciò che sarà di loro (a Nix in particolare che è altrettanto in crisi) dopo la separazione e il divorzio.
La personalità dei due protagonisti viene invece analizzata e messa a fuoco negli altri tre “ritorni al passato” (e soprattutto negli ultimi due che rimandano al giorno in cui Marianne ha rinunciato a sposare Carl-Adam il suo precedente fidanzato, e alla gita campestre per il settantacinquesimo compleanno del padre di David): il protagonista maschile è un uomo cinico, vanitoso, brillante, sicuro di sé, che teme però per l’avvenire dei figli e ha paura della solitudine nella vecchiaia; Marianne sua moglie, è invece una donna intelligente, orgogliosa e autoritaria che ha un carattere particolarmente difficile, ma ha anche un bisogno profondo di affetto, in mancanza del quale si sente smarrita (cosa che renderà poi possibile la ricomposizione conclusiva del dissidio).
Nonostante il brio e la speranza che scaturisce dalla riconciliazione finale, traspare comunque dall’opera una celata ma indubbia tristezza di fondo che non fa scomparire del tutto quel gusto amarognolo che l’opera lascia nella bocca dello spettatore più attento: avrebbe potuto essere una tragedia ci ha avvertito lo speaker all’inizio della rappresentazione, ma poi tutto è finito bene, e allora bisogna chiamarla commedia.
Il film si segnala dunque e soprattutto, per la raffinatezza degli incastri e per l’intelligenza degli spumeggianti dialoghi (la sceneggiatura è dello stesso Bergman) che contribuiscono a farne una commedia briosa e sorridente, ma senza rinunciare alla causticità genuina di certe salaci “stilettate” capaci di insaporire la pietanza con le sue piccole provocazioni nascoste.
Formidabile anche il cast formato dai sui fedeli attori fra i quali spiccano per particolare luce e talento, Eva Dahlbeck (Marianne Erneman), la ancora giovanissima, splendida Harriet Andersson (Nix), Gunnar Björnstrand (David Erneman),Yvonne Lombard (Suzanne), Ake Grönberg (Carl-Adam), Olof Winnerstrand (Henrik Erneman), René Björling (Svea Erneman) e Brigitte Rainer (Lisa).
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